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La verità di Spatuzza PDF Stampa E-mail
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Scritto da Giovanni Bianconi   
Lunedì 01 Giugno 2009 09:37

Per i magistrati siciliani si sono trovati «significativi elementi di riscontro»

La strage di via D’Amelio e il nuovo pentito Antimafia indaga sulla verità di Spatuzza

Frizioni tra il superprocuratore Grasso e Caltanissetta sull’incarico alla Boccassini

ROMA - È un pentito ancora in mez­zo al guado Gaspare Spatuzza, l’ex «uomo d’onore» del quartiere palermitano di Brancaccio che disegna nuovi scenari die­tro la strage di via D’Amelio, in cui morì Paolo Borsellino, e altri delitti di mafia. Un collaboratore in parte credibile e in parte no. Così ritiene la Procura di Caltanissetta, ancora alla ricerca dei «mandanti occulti» degli eccidi del ’92, che s’è comunque di­chiarata d’accordo a inserire Spatuzza (il quale riempie verbali d’interrogatorio or­mai da undici mesi) nello speciale pro­gramma di protezione richiesto per lui da un altro ufficio inquirente, quello di Firen­ze, titolare delle indagini sulle stragi mafio­se del ’93.

«Gli accertamenti fin qui svolti hanno consentito di trovare significativi elementi di riscontro rispetto a una parte delle di­chiarazioni dello Spatuzza», ha scritto il procuratore nisseno Sergio Lari nel parere inviato al superprocuratore nazionale anti­mafia Piero Grasso. In particolare sul furto della Fiat 126 di cui l’aspirante pentito si autoaccusa, riempita di tritolo e utilizzata per far saltare in aria Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, il 19 luglio 1992; e tra i riscontri c’è la ritrattazione di colui che all’epoca confessò di aver rubato la macchina, Salvatore Candura, il quale lan­cia oggi «pesanti accuse nei confronti di al­cuni esponenti della polizia di stato, a suo dire responsabili di averlo indotto a dichia­rare il falso». Accanto ai riscontri positivi, però, ci so­no quelli negativi su altre affermazioni di Spatuzza: dalle perizie che non hanno evi­denziato tracce di esplosivo in alcuni loca­li indicati dall’ex mafioso a un lanciamis­sili che non si trova, dalla mancata indivi­duazione di alcuni soggetti alle «impreci­se dichiarazioni inerenti il momento stori­co in cui ebbe affidato l’incarico, su man­dato del capo mandamento di Brancaccio Giuseppe Graviano, di procurare una au­tovettura Fiat». Infine, nota il procuratore Lari, «le di­chiarazioni sul ruolo di possibili mandan­ti esterni sembrano essere troppo generi­che e non in grado di fornire utili sviluppi alle indagini». Tuttavia, ai già numerosi accertamenti svolti ne dovranno seguire altri ed è innegabile che Spatuzza, detenu­to in regime di carcerazione ordinario, sia «in condizione di grave e attuale pericolo rispetto all’ambiente criminale di prove­nienza».

Massima protezione, dunque, in attesa di decidere se promuoverlo collaboratore di giustizia a pieno titolo, oppure no. An­che perché, se avesse ragione lui rispetto all’estraneità di una parte della Cupola ma­fiosa alla decisione di uccidere Borsellino a meno di due mesi dall’eliminazione di Falcone, «si aprirebbero inquietanti inter­rogativi sulle cause, ragioni e modalità del­la diversa ricostruzione» consacrata da sentenze definitive che andrebbero rivi­ste. La strage di via D’Amelio infatti, ricor­da Lari, è «un evento delittuoso che ha se­gnato la storia d’Italia», con «numerosi aspetti oscuri e interrogativi irrisolti, in re­lazione ai quali questa Procura sta ancora svolgendo delicatissime indagini». Proprio per dare un aiuto a quel «delica­tissimo » lavoro — e in considerazione del­le carenze d’organico in cui si tro­va l’ufficio siciliano, con la metà di sostituti in servizio rispetto a quelli previsti — da Roma il procuratore nazionale Gras­so ha fatto una proposta: ap­plicare all’inchiesta Ilda Boccassini, pubblico mini­stero appena nominato pro­curatore aggiunto di Mila­no, che già lavorò a Calta­nissetta dal ’92 al ’94, all’in­domani delle stragi. E che, prima di lasciare quella città, manifestò forti dubbi sull’atten­dibilità del pentito Scarantino, la cui versione dei fatti venne invece presa per buona da altri magistrati e oggi è smentita dalle dichiarazioni di Spatuzza. Nella sua lettera Grasso ricorda la «esperienza diretta» acquisita dalla Boc­cassini in materia, e la sua specifica compe­tenza sulle dinamiche mafiose. Ma da Cal­tanissetta hanno contrapposto l’inopportu­nità di un simile passo, giacché alla Boccas­sini è stata recapitata una convocazione in veste di testimone: vogliono interrogarla sulle ragioni dei dubbi espressi su Scaranti­no 15 anni fa e — al pari di altri inquirenti dell’epoca — sulle modalità delle indagini svolte allora. Un primo appuntamento è saltato per impegni di lavoro del pm mila­nese, un altro è stato fissato per i prossimi giorni.

Al di là delle esigenze processuali la con­vocazione della Boccassini, quasi conte­stuale alla proposta di applicazione, fa in­tendere che la Procura di Caltanissetta ri­tiene di poter andare avanti nell’indagine senza il soccorso di un magistrato di in­dubbia e riconosciuta professionalità, che concluse con successo il primo procedi­mento sulla strage di Capaci. E che, pro­prio a partire dalle rivelazioni di Spatuzza, ha avviato una nuova inchiesta sull’auto­bomba mafiosa che nel luglio ’93 uccise cinque persone a Milano. L’idea di Grasso e l’implicita risposta negativa confermano tuttavia come intorno alle dichiarazioni del neo-pentito di Brancaccio, e a ciò che esse comportano nella rilettura della strate­gia terroristica nel biennio ’92-’93, non ci sia identità di vedute e unità d’intenti. Sullo sfondo di queste divisioni ci sono le dichiarazioni di un altro pentito, Giovan­ni Brusca, che pure sono all’origine di qual­che fibrillazione. L’uomo che fece saltare in aria l’autostrada Palermo-Punta Raisi per uccidere Giovanni Falcone ha svelato ai magistrati di Caltanissetta il nome (fatto­gli da Toto Riina, dice) dell’«uomo delle istituzioni con il quale venne avviata la trattativa con Cosa Nostra», al tempo delle stragi. Prima di lui Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo morto nel 2002, aveva riferito di aver sapu­to che l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino era stato informato, su richiesta di suo padre, della trattativa avviata da «uomini delle istituzioni» con Cosa Nostra per interrompere la catena di bombe ma­fiose. Mancino, oggi vice-presidente del Consiglio superiore della magistratura, ha presentato un esposto-denuncia alle Pro­cure di Palermo e Caltanissetta per «tute­larsi » dalle dichiarazioni di Ciancimino jr. e negando ogni coinvolgimento nella vi­cenda.

Giovanni Bianconi
01 giugno 2009

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