Davanti alle difficoltà non bisogna arrendersi.
Al contrario, devono stimolarci a fare sempre di più e meglio, o superare gli ostacoli per raggiungere i risultati che ci siamo prefissati.
ROMA - Paolo Borsellino seppe che i carabinieri avevano agganciato Vito Ciancimino per una sua possibile collaborazione il 28 giugno 1992, ultima domenica del mese, all’aeroporto di Fiumicino, mentre tornava da Bari e aspettava il volo per Palermo. Glielo disse Liliana Ferraro, la collaboratrice di Giovanni Falcone che ne prese il posto al fianco del ministro della Giustizia Martelli dopo la strage di Capaci. A lei l’aveva riferito proprio l’ufficiale dell’Arma che aveva preso contatto con l’ex sindaco mafioso: il capitano Giuseppe De Donno, il quale — attraverso la Ferraro — voleva informare lo stesso Guardasigilli. Forse perché per «trattare» con Ciancimino, vicinissimo ai corleonesi Riina e Provenzano, c’era bisogno di «garanzie politiche», come racconta Martelli.
Una ricostruzione negata dai carabinieri, tanto che l’ormai ex capitano De Donno s’è già rivolto a un avvocato per intraprendere ogni possibile iniziativa a sua tutela. Sostiene di non aver mai parlato con Liliana Ferraro dei suoi colloqui con Ciancimino, che per lui vestiva i panni del semplice «confidente ». Ma ieri la testimone ha confermato tutto ai magistrati di Caltanissetta e Palermo che indagano sulle stragi del ’92 e sull’ipotetica trattativa tra Stato e mafia. Precisando che della circostanza parlò già nel 2002 col pubblico ministero fiorentino Gabriele Chelazzi che indagava sulle stragi del ’93. Quando De Donno andò a trovarla — ha ricordato ieri la Ferraro — era sconvolto per la morte di Falcone avvenuta circa un mese prima, era in cerca di nuovi riferimenti giudiziari per le indagini, e lei lo invitò ad affidarsi a Borsellino, all’epoca procuratore aggiunto di Palermo.
Pochi giorni dopo, a Fiumicino, la stessa Ferraro riferì a Borsellino il colloquio con l’ufficiale dell’Arma, avvenuto su richiesta del magistrato che aveva annotato il nome «Ferraro» sulla sua agenda grigia. Con lui c’era la moglie Agnese, la quale già nel 1995 aveva parlato dell’incontro davanti alla Corte d’assise. Non disse di che parlarono, perché non aveva assistito alla conversazione, ma nei giorni scorsi — in una testimonianza resa ai pubblici ministeri di Caltanissetta — ha aggiunto un particolare che potrebbe legarsi alle ultime novità emerse. Agnese Borsellino ha rivelato che pochi giorni prima di morire nella strage di via D’Amelio (19 luglio ’92), suo marito le confidò di aver maturato dei dubbi sul generale dei carabinieri Antonio Subranni, all’epoca comandante del Ros, il raggruppamento speciale di cui facevano parte De Donno e l’allora colonnello Mori, cioè i due carabinieri che avevano agganciato Ciancimino. Subranni era dunque il superiore informato da De Donno e Mori dei colloqui avviati con l’ex sindaco. I due hanno sempre sostenuto che fuori dell’Arma non dissero nulla a nessuno fino all’arresto dello stesso Ciancimino, avvenuto all’inizio del ’93. Ora s’inseriscono altre ricostruzioni che potrebbero arrivare a riscrivere la storia di quella drammatica estate di diciassette anni fa.