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Dalla Chiesa: la strage di via Carini PDF Stampa E-mail
Documenti - Per non dimenticare
Scritto da Serena Verrecchia - Angelo Garavaglia Fragetta   
Domenica 29 Novembre 2009 13:13
http://www.unavitacontrolamafia.blogspot.com/
(il BLOG di Serena Verrecchia)

 

3 settembre 1982. Era un caldo venerdì sera e gli italiani si preparavano a trascorrere uno degli ultimi weekend estivi prima del rientro al lavoro: le famiglie si preparavano per andare ad assaporare le ultime giornate di sole al mare e le coppiette si apprestavano ad uscire e a trascorrere un fine settimana all'insegna del divertimento. Anche Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro quella sera avevano avvertito la necessità di uscire a respirare la fresca aria di mare e avevano deciso di andare a mangiare in un ristorante di Mondello.

La A112 su cui salirono era seguita da un'Alfetta guidata dall'agente di scorta Domenico Russo. Alle ore 21,15, mentre passavano da via Isidoro Carini a Palermo, una motocicletta, guidata da un killer che aveva alle sue spalle il mafioso Pino Greco, affiancò l'Alfetta di Russo e Greco lo uccise con un fucile AK-47. Contemporaneamente una BMW 518, guidata da Antonino Madonia e Calogero Ganci, raggiunse la A112 e i killer aprirono violentemente il fuoco contro il parabrezza con un AK-47 (Dalla Chiesa e la moglie rimasero uccisi da trenta pallottole). L'auto del prefetto sbandò, andando a sbattere contro il bagagliaio di una Fiat Ritmo ivi parcheggiata. Pino Greco scese dalla motocicletta e, girando attorno alla A112 crivellata dagli spari, controllò l'esito mortale dell'agguato. Oltre a questi sicari, vi erano sul posto altri criminali "di riserva" che seguivano con un'altra auto pronti a intervenire nel caso di una reazione efficace del Russo, che però non ebbe modo di verificarsi.
Subito dopo le due auto e la motocicletta servite per il delitto vennero portate in un luogo isolato e lì date alle fiamme.  (CONTINUA)

Carlo Alberto Dalla Chiesa era un uomo, ma ancora prima di essere un uomo, egli era un generale e, come succede per tutti quegli uomini che rivestono onestamente un'alta carica al servizio dello Stato, doveva mettere al primo posto il suo lavoro, il suo dovere. Seguendo questa semplice filosofia che viene, o almeno veniva, inculcata nella mente di ogni soldato che operava in favore del suo Paese, Dalla Chiesa, come tanti altri, trovò la morte. Qualcuno, quella notte, si mise al di sopra di Nostro Signore e si arrogò il diritto di spezzare le vite di tre uomini, rei solo di aver vissuto a testa alta, seguendo il proprio dovere morale e semplicemente facendo il proprio lavoro.
 
"Il generale di ferro" lo chiamavano. Ottimo combattente, Dalla Chiesa era un po' diverso dai soliti nomi che capita di sentire quando si parla di lotta a Cosa Nostra. Egli non era siciliano, ma aveva avuto a che fare con la realtà dell'isola quando era ancora molto giovane, indagando, a Corleone, su Lucianeddu e la sua banda di "viddani", capeggiati Salvatore Riina. Dopo anni di esperienza in questo campo, il generale fu mandato ad eliminare un altro cancro del nostro Paese: il terrorismo delle Brigate Rosse. Ebbe un grandissimo successo e il suo contributo all'abbattimento di questo genere di criminalità organizzata fu essenziale.
Poi, però, nell'82 lo Stato gli affidò un altro compito. Qualcosa di molto più delicato e spaventoso: la lotta a Cosa Nostra.
Chi, in quegli anni, lo mandò nella terra maledetta, la Sicilia, era già consapevole della fine che avrebbe fatto.

Sì, perchè un conto è fare la guerra ai terroristi, uomini spregevoli e folli che desiderano la caduta dello Stato, altra cosa è invece scontrarsi con il potere mafioso che con lo Stato ci stringe accordi. Le cose, come si nota, sono ben diverse.

Il Governo aveva un serio bisogno di un uomo forte e capace come Dalla Chiesa per sconfiggere un'organizzazione che lo minacciava, ma non avvertiva la stessa necessità per combattere la mafia.

Semplicemente il generale fu abbandonato in quella terra, fu gettato nelle fauci della belva, lasciato solo.

Atterrato a Palermo, Dalla Chiesa aveva affermato: "Non guarderò in faccia a nessuno"; criminali di strada, boss, imprenditori o politici per lui non avrebbero fatto la differenza. In un altro contesto, in un altro mondo, sarebbe riuscito a sradicare persino la minaccia di Cosa Nostra, ne sono sicura, perchè il suo carisma, la sua forza e la sua determinazione avrebbero vinto sulla barbarie e sulla prepotenza. Purtroppo, però, il suo soggiorno in terra mafiosa durò solo cento giorni, un arco di tempo sufficiente a fargli capire che non avrebbe avuto lo stesso successo che aveva avuto con le BR, che era rimasto solo e che a coprirgli le spalle era rimasta solo la sua scorta e ad incoraggiarlo solo la sua famiglia. Un pezzo di entrambe le cose se ne andò con lui quella sera del 3 settembre del 1982.
Il giorno seguente alla strage, in via Carini comparve un cartello che arrecava la scritta: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". A Palermo, il 3 settembre era morta per l'Italia la speranza di libertà, la speranza di poter essere di nuovo inondata dai raggi del sole, dalla luce.
Quello stesso giorno fu assegnata al generale la medaglia d'oro al Valore Civile:
«Già strenuo combattente, quale altissimo Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, della criminalità organizzata, assumeva anche l'incarico, come Prefetto della Repubblica, di respingere la sfida lanciata allo Stato Democratico dalle organizzazioni mafiose, costituenti una gravissima minaccia per il Paese. Barbaramente trucidato in un vile e proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sublimava con il proprio sacrificio una vita dedicata, con eccelso senso del dovere, al servizio delle Istituzioni, vittima dell'odio implacabile e della violenza di quanti voleva combattere.»
Quell'anno gli italiani conquistarono una coppa del mondo, ma in via Carini persero una cosa molto più importante, persero la speranza di vedere un mondo migliore, un'Italia migliore.


All'inizio del mese di aprile del 1982 Dalla Chiesa scrive al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini queste parole: "la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la "famiglia politica" più inquinata da contaminazioni mafiose". Un mese dopo viene improvvisamente inviato in Sicilia come prefetto di Palermo per contrastare l'insorgere dell'emergenza mafia, mentre il proseguo delle indagini sui terroristi passa in altre mani.

A Palermo lamenta più volte la carenza di sostegno da parte dello stato; emblematica e carica di amarezza rimane la sua frase: "Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì". Chiede di incontrare Giorgio Bocca, uno dei giornalisti più importanti del periodo, per lanciare attraverso i media un messaggio allo stato, un messaggio che ha come obiettivo la richiesta di aiuto e sostegno da parte dello stato. Nell'intervista (7 agosto 1982) c'è la presa d'atto del fallimento dello Stato nella battaglia contro Cosa Nostra, delle connivenze e delle complicità che hanno consentito alla mafia di agire indisturbata per anni.
Di fatto la pubblicazione dell'articolo di Bocca non suscita la reazione dello stato bensì quella della mafia che aveva già nel mirino il generale carabiniere.

"Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere nè ai prevaricatori, nè ai prepotenti, nè ai disonesti. Potere può essere un sostantivo nel nostro vocabolario ma è anche un verbo. Ebbene, io l'ho colto e lo voglio sottolineare in tutte le sue espressioni o almeno quelle che così estemporaneamente mi vengono in mente: poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccia l'interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa, poter guardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici, di rinunzie, ma di pulizia, poter sentirci tutti uniti in una convivenza, in una società che è fatta, è fatta di tante belle cose, ma soprattutto del lavoro, del lavoro di tanti. E occorre che tutti, gomito a gomito, ci sentiamo uniti, perchè anche chi è animato da entusiasmo, anche chi crede, come crede colui che in questo momento vi sta parlando, ha bisogno di essere sostenuto, di essere aiutato, di sentire di vivere in mezzo a chi crede perché, tutti credendo, possiamo raggiungere la meta che auspichiamo: la tranquillità, la serenità". Palermo, 1 maggio 1982 - Incontro con i Maestri del Lavoro il giorno dopo l'assassinio di Pio La Torre (tratto da: Carlo Alberto dalla Chiesa In nome del popolo italiano, a cura di Nando dalla Chiesa ­ Rizzoli, Milano 1997)


Appuntamenti:

Giovedì 3 Dicembre alle ore 21 incontro dal titolo:


"Omicidio Dalla Chiesa: MAFIA o poteri deviati dello stato?"

"Palermo 3 settembre 1982 ore 21:00
Il Generale e Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa viene assassinato insieme alla moglie e alla sua scorta

MA CHI LO HA UCCISO?
La MAFIA o i POTERI DEVIATI dello Stato? Chi sono i MANDANTI e dove vanno ricercati?

Dopo le recenti rivelazioni giudiziarie su connivenze e collusioni... ne parliamo con:
Nando Dalla Chiesa - Figlio del Generale Carlo Alberto
Peter Gomez - Giornalista e scrittore
Gioacchino Genchi - Consulente tecnico dell’Autorità Giudiziaria
Leoluca Orlando - Deputato dell’Italia dei Valori, già Sindaco di Palermo

Moderatore: Alessandro Diano
Introduce: Eugenio Gigliotti

Giovedì 3 DICEMBRE 2009 ORE 21:00
Pieve Emanuele - Sala Consiliare - Via Viquarterio, 1"

Evento su Facebook: www.facebook.com/event.php?eid=226540640808




Documenti:

Carlo Alberto Dalla Chiesa da Wikipedia
Intervista a Giorgio Bocca del 7 Agosto 1982
Intervista di Enzo Biagi del 1981
La notizia della strage in Tv
Puntata de " La storia siamo noi"

 
Attachments:
volantino Dalla Chiesa.jpg[ ]30/11/2009 16:07

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