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Processo Dell'Utri: quei ricatti dal 41bis PDF Stampa E-mail
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Scritto da Monica Centofante   
Lunedì 14 Dicembre 2009 12:08
 
altLa lettera di Giuseppe Graviano: “Quando il mio stato di salute lo permetterà risponderò alle domande della Corte”. “Una storia fatta di mezze frasi”. Quelle che a una “persona comune” non dicono nulla, ma che dentro Cosa Nostra “fanno una casa”, fanno “un palazzo”. Gaspare Spatuzza, ex uomo d'onore di Brancaccio, è solo l'ultimo dei pentiti che quell'universo di codici non scritti di cui è permeata l'organizzazione criminale siciliana lo ha spiegato ai magistrati. A modo suo, con le parole semplici di chi la vita l'ha trascorsa a pianificare ed eseguire omicidi e stragi, ma con l'autorità conferitagli dal rapporto speciale che da sempre lo lega ai capi della “supercosa” Filippo e Giuseppe Graviano. I due boss che venerdì scorso hanno debuttato in videoconferenza al processo palermitano contro il senatore Marcello Dell'Utri regalando, in diretta nazionale, una delle più sofisticate lezioni di mafia.
Per i profani quelle smentite alle dichiarazioni di Spatuzza - sui legami tra i due capimafia da una parte, Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri dall'altra - avranno di certo rappresentato motivo di delusione. Ma per chi sa leggere tra le righe, dizionario di Cosa Nostra alla mano, è passato ben altro messaggio. Delle nette prese di distanza, delle feroci accuse di infamità contro i pentiti, alle quali i boss in oltre vent'anni di processi ci hanno abituato, nemmeno l'ombra. E nelle domande rimaste in sospeso durante l'udienza l'inedito rispetto dei due capimafia – emerso nel corso dei confronti e riportato nei verbali depositati a processo - per la scelta del “figlioccio” di passare dalla parte della Giustizia. Insieme alle tante parole di affetto che Filippo Graviano rivolge “all'amico e fratello” Gaspare, al quale augura “tutto il bene del mondo” e pur smentendo i fatti specifici raccontati dal pentito, dichiara: “Non ti dico che stai mentendo”.
Un'apparente contraddizione, che da una parte sembra avallare le dichiarazioni del pentito in merito ad un colloquio che sarebbe intercorso tra i due, nel 2004, all'interno del carcere di Tolmezzo: “Dobbiamo far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove arrivare – avrebbe detto Filippo Graviano a Spatuzza - è bene che anche noi cominciamo a trattare con i magistrati”.
Erano gli anni della “dissociazione” e delle insistenti richieste di allentamento del 41bis provenienti da diversi istituti di pena e l'odierno pentito aveva collegato quel discorso al colloquio intercorso dieci anni prima con Giuseppe Graviano all'interno del bar Doney di via Veneto, a Roma. Quando, raggiante, il boss gli aveva confidato: “Abbiamo ottenuto quello che volevamo”, grazie a Berlusconi “e c'era di mezzo un nostro compaesano, Dell'Utri” (“una persona vicinissima a noi”, “qualcosa di più di Berlusconi”). Persone serie - “non come quei quattro crasti dei socialisti” - con le quali “ci siamo messi il Paese nelle mani”. Era il coronamento di una “trattativa” che Spatuzza sapeva essere in corso da tempo e che univa in un unico disegno tutte le stragi del '92 e del '93. Tirando, contemporaneamente, un filo logico tra alcuni eventi dei primi anni Novanta e quel rapporto instaurato, probabilmente già allora, con l'attuale presidente del Consiglio.
Già nel 1989, quando esce dal carcere, racconta il pentito, Filippo Graviano manifesta una “grandezza imprenditoriale”. E insieme al fratello decide di aprire a Palermo due o tre magazzini Standa, intestati a un prestanome (Michele Finocchio): “Uno a Brancaccio, uno a Corso Calatafini e uno... via Duca della Verdura”. Contemporaneamente si interessa anche alla società Molini Virga, citata da numerosi pentiti e riportata nella sentenza di primo grado che ha condannato il senatore Dell'Utri a nove anni di reclusione. “Là – spiega ancora – c'è una questione che non ci deve mettere mano nessuno. Però a voce di popolo tutti sanno che là c'ha interessi fortissimi Berlusconi”.
Nel 1991 – continua Spatuzza - i fratelli Graviano iniziarono a “svendere” le loro proprietà i loro appartamenti su Palermo perché avevano bisogno di liquidità che “non sono stati impiegati per quello che so io (…) per acquisti di mia conoscenza”. E dal momento che non erano “tanto attenti” al versante palermitano “ne dedussi che forse aveva intenzione di spostarsi”.
In quello stesso periodo Cosa Nostra stava organizzando su Roma l'attentato contro Giovanni Falcone, ma all'improvviso “c'è un cambiamento di situazione” e il gruppo di fuoco viene richiamato a Palermo perché “si deve accelerare il tempo e “occorre fare un attentato eclatante”. Quindi “avviene Capaci, avviene Borsellino e siccome la cosa è tanto bella, di portarla ancora avanti. E li nascono le stragi. Il colpo allo Stato”, per il quale Cosa Nostra ha precise garanzie: “Per sferrare un attacco così diretto era più che superprotetta”. Tanto che Filippo Graviano ostentava la sua sicurezza e in riferimento alla magistratura a Spatuzza diceva: “Faglieli fare i processi e un giorno li rifaremo noi”.
Nel 1993 i Graviano si trasferiscono a Milano per trascorrere la latitanza. Una cosa “anomalissima” per le comuni regole di Cosa Nostra, come quegli appuntamenti “sulla riviera ligure, a Gardaland” o a “Porto Rotondo”. Il Natale del 1993 lo trascorrono nella capitale lombarda e alla fine di gennaio del 1994, soltanto due settimane dopo l'incontro al bar Doney, vengono arrestati a Milano. “Traditi”. “Venduti” da qualcuno che, gli stessi boss specificano a Spatuzza nel 2004, non è da cercare “dentro Cosa Nostra, ma altrove”.
In quello stesso anno Marcello Dell'Utri viene condannato in primo grado a nove anni di reclusione e in un'intervista al Corriere della Sera dichiara che nonostante i suoi guai giudiziari “fino alla fine avrebbe mantenuto gli impegni presi con gli elettori”. Nelle fila di Cosa Nostra, la dichiarazione viene percepita come un messaggio. Dell'Utri, continua Spatuzza, solitamente non è una figura di “prima linea, ma marginale”, “quindi io che sto leggendo quell'articolo e so tutto che c'è dietro, quindi a 'sto punto, con quell'articolo si sta rivolgendo con me”. Per questo stesso motivo i Graviano decidono di aspettare. Ma, conclude amaro il pentito, “stanno aspettando più che altro un'illusione di colui che se li è venduti per carne di macello”.
Venerdì, in videoconferenza dal carcere di Parma, Giuseppe Graviano si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma ha chiesto al Presidente che fosse letta in udienza una lettera inviata in mattinata alla Corte. Il giudice ha negato la possibilità e il boss, in una sola frase, il suo “messaggio a buon intenditor” lo ha lanciato comunque: “Per il momento non sono in grado di essere sottoposto a interrogatorio”. Vedremo “quando il mio stato di salute me lo permetterà”.
Nella missiva, successivamente pubblicata sui giornali, poche righe per descrivere un profondo stato di malessere: 16 anni di detenzione al 41bis, più di 10 di isolamento, una serie di problemi fisici e un trattamento che “viola articoli dell'Ordinamento Penitenziario, Carta Costituzionale, Convenzione dei Diritti Umani, ed anche diritti dell'infanzia e dell'adolescenza per il motivo che mio figlio di anni 12 chiede perché non possiamo scambiarci baci e carezze, perché ci permettono di incontrarci solo 1 ora al mese attraverso un vetro divisorio?”.
Al termine dell'elenco, la sentenza, la stessa già pronunciata in videoconferenza: “Sarà mio dovere quando il mio stato di salute lo permetterà di informare l'Illustrissima Corte d'Appello per rispondere a tutte le domande che mi verranno poste”.
Chissà se la richiesta è giunta a destinazione. Ciò che è certo è che ora attende una risposta.

Fonte: AntimafiaDuemila (Monica Centofante, 14 Dicembre 2009)

 

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mariame   |2009-12-15 19:25:56
Oggi pomeriggio sul canale sky tg24, ho sentito la Boniver dire che si tratta di
un disegno per rovesciare il governo, lo stesso disegno che ha portato Andreotti
e Craxi a subire la "persecuzione" che tutti conosciamo: si comincia con
le vignette, con le trasmissioni contro, satira e dileggio, attacco
dell'opposizione,accuse di connivenze con la mafia, e si finisce con il
provocare quello che è successo a S.B., così come il "vergognoso lancio
delle monetine a Craxi", tesi condivisa da un giornalista della Stampa di
Torino presente alla trasmissione. La conduttrice della trasmissione, Paola
Saluzzi (credo si chiami così) ha lasciato passare questa vergognosa
ricostruzione dei fatti senza nulla ribadire. Vi sembra possibile che anche a
Sky si travisino i fatti in questo modo senza che nessuno intervenga a
ristabilire la verità? Raiset è diventata Raiskyset?
Fabio  - oltre a Spatuzza, ci sono anche altri pentiti   |2009-12-16 01:07:09
Ci sono altri pentiti che fanno il nome di Berlusconi e Dell'Utri...ecco
l'articolo dell'inchiesta portata avanti da Tescaroli e poi archiviata per
intervento dell'allora capo di Caltanisetta Tinebra.

L' INCHIESTA DI
CALTANISSETTA
Tescaroli: ma Brusca e Cancemi non si contraddicevano

L'
INCHIESTA DI CALTANISSETTA Tescaroli: ma Brusca e Cancemi non si contraddicevano
ROMA - Quella sui mandanti occulti delle stragi mafiose del ' 92 era la «sua»
inchiesta, se lo stesso procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, ammette:
«Ha fatto quasi tutto lui». Per due anni e più, dal luglio 1998, il «giudice
ragazzino» Luca Tescaroli ha intrecciato dichiarazioni e cercato riscontri
sugli «interessi convergenti» esterni a Cosa Nostra che ispirarono le bombe di
Capaci e via D' Amelio. Poi, alla fine dell' anno scorso, partì per la procura
di Roma con una giustificazione un po' sibillina: «Ho ritenuto che non vi
fossero più le condizioni per proseguire». Quell' inchiesta, che vedeva
indagati Berlusconi e Dell' Utri del reato di concorso in strage, s' è ora
conclusa con una richiesta di archiviazione firmata da altri magistrati, i quali
hanno preso in mano e tirato le somme del suo lavoro. E Tescaroli commenta: «Se
le anticipazioni che ho letto sul Corriere sono vere, le considero un fatto
grave e sorprendente, anche perché la fuga di notizie su un atto riservato
avviene da un ufficio che ha sempre vigilato sul rispetto del segreto
investigativo». Tescaroli ha seguito in silenzio la bagarre sul «caso
Satyricon», pur essendone un protagonista di primo piano, visto che buona parte
del libro-scandalo di Travaglio è composto dai suoi atti istruttori e dalle sue
requisitorie. Adesso ha deciso di derogare al riserbo per dire: «Sono stati
divulgati anche atti interni all' inchiesta, propedeutici alle conclusioni, che
chiamano in causa il sottoscritto realizzando una sovraesposizione e una
delegittimazione di chi ha semplicemente indagato senza distinguere le persone
sulla base del censo, del proprio potere personale e del ruolo rivestito nella
società, com' è previsto dalla legge. Naturalmente non mi riferisco al
giornale o ai giornalisti, ma a chi ha reso possibile la fuga di notizie». Ma
lui, il pm che se n' è andato da Caltanissetta alla vigilia dell' atto finale
dell' inchiesta, è d' accordo oppure no con le decisioni prese da chi è
rimasto? Tescaroli si richiude a riccio: «Nel merito delle valutazioni non
posso entrare. Chi vuole, però, può leggere il contenuto della requisitoria da
me pronunciata al processo d' appello per la strage di Capaci; lì ho detto, ad
esempio, sulla base di argomentazioni che ritengo logiche e rigorose, che le
dichiarazioni di Giovanni Brusca non si pongono in contraddizione con quelle di
Salvatore Cancemi». Punto. Un punto che appare sufficiente, però, a prendere
le distanze da chi - come la procura nissena - ha ritenuto di fondare il
proscioglimento di Berlusconi e Dell' Utri anche sulle presunte contraddizioni
tra questi due pentiti. Nella requisitoria citata da Tescaroli, inoltre, si
legge che le dichiarazioni di Cancemi, Brusca e di un altro pentito, Maurizio
Avola, «consentono di inquadrare le ipotesi di trattative coltivate, e gli
attentati eseguiti e programmati, nell' azione volta a creare le condizioni per
l' affermazione di una nuova formazione politica». Altro «pezzo forte» della
richiesta di archiviazione proposta a Caltanissetta sono le deposizioni dell'
ex-presidente della Repubblica Cossiga, che fissa la decisione di Berlusconi di
entrare in politica «due-tre mesi prima delle elezioni del 1994». E pur non
volendo commentare il valore di queste dichiarazioni, Tescaroli ricorda che «al
processo d' appello per Capaci sono stati forniti elementi di prova che vanno in
segno contrario», in particolare una sorta di atto di fondazione di Forza
Italia datato luglio 1993. Dunque il «giudice ragazzino» ha lasciato la
Sicilia perché aveva capito che i vertici dell' ufficio sarebbero giunti a una
conclusione dell' indagine diversa da quella che lui immaginava? «Io sono fermo
a quella frase, non c' erano le condizioni per continuare a lavorare. Ognuno
può leggerla come crede. Quello che non è giusto fare, in democrazia, è
pilotare l' informazione per delegittimare chi ha semplicemente fatto il proprio
dovere». Giovanni Bianconi

Bianconi Giovanni


Pagina 13
(27 marzo 2001)
- Corriere della Sera

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