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Antonino Di Matteo: I colpi alla mafia non sono merito solo della politica PDF Stampa E-mail
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Scritto da Pietro Orsatti   
Domenica 03 Gennaio 2010 15:12
Antonino Di Matteo, pm a Palermo, che indaga sulle stragi dei primi anni Novanta, ci tiene a mettere in evidenza la professionalità e i sacrifici di magistrati e forze dell’ordine. E avverte su un rischio: «I provvedimenti governativi, alcuni già approvati e altri in discussione, potrebbero favorire il ricompattamento di Cosa nostra». Si riferisce al disegno di legge sulle intercettazioni, al controverso provvedimento sullo “scudo fiscale” e alla possibile riforma del Codice penale. E con lui parliamo pure delle dichiarazioni rese da Gaspare Spatuzza e Massimo Ciancimino.

Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha annunciato per le prossime settimane una serie di provvedimenti che andranno a costituire, queste le dichiarazioni alla vigilia di Capodanno, un piano per sconfiggere in poco tempo, definitivamente, la mafia.
Questa affermazione muscolare del ministro si fonda sui numerosi successi conseguiti negli ultimi mesi e simboleggiati nella cattura di alcuni latitanti di spicco di Cosa nostra fra novembre e dicembre in Sicilia. Ma è davvero così? Siamo davanti a successi così straordinari da pensare a un’offensiva definitiva dello Stato nei confronti delle mafie? Per capirlo bisogna andare a sentire chi la lotta alla mafia la conduce da anni, giorno per giorno, in prima linea. A parlare è il pm Antonino Di Matteo, sostituto di punta a Palermo, protagonista di molte delle inchieste e dei processi più delicati di questi ultimi anni, fino all’inchiesta in corso sulla presunta trattativa fra Stato e mafia a partire dalla stagione delle stragi del 1992-93. Per intenderci, uno di quei magistrati che stanno raccogliendo in questi mesi le dichiarazioni di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza, fra gli altri. Di Matteo è stato eletto da poco presidente a Palermo dell’Associazione nazionale magistrati a riconoscimento di una carriera e di un’autorevolezza conquistata sul campo. E questo nuovo incarico, visti i recenti attacchi di esponenti della maggioranza di governo ai pm, in particolare proprio a quelli di Palermo, lo pone ancor più al centro dell’attenzione.

«Il bilancio dell’ultimo anno di lotta alla mafia è caratterizzato da luci e ombre - esordisce il pm -. È vero che, come negli anni precedenti, sono stati catturati numerosi latitanti e si sono succedute numerose brillanti operazioni antimafia, ma ciò per merito esclusivo di magistrati e forze dell’ordine. Che con professionalità e sacrifici anche personali non indifferenti hanno fronteggiato difficoltà immani, connesse alle sempre più gravi carenze di risorse umane, materiali ed economiche. Quindi, ritengo che la politica di qualsiasi colore, dovrebbe avere almeno il pudore di non arrogarsi meriti che non le appartengono».
 
 
Dottor Di Matteo, le luci sono le operazioni andate in porto. E le ombre? 
Le ombre sono connesse da un lato alla trasformazione in atto in Cosa nostra e dall’altro dal concreto gravissimo rischio che provvedimenti governativi, alcuni già approvati e altri in discussione in Parlamento, possano a breve favorire il ricompattamento di Cosa nostra e in più in generale di una gestione mafiosa del sistema di potere reale. 
 
Parla in particolare di quelle che potremmo definire le “restrizioni investigative”, come ad esempio quelle sulle intercettazioni, e dell’ipotesi di ritoccare ancora la normativa sui collaboratori di giustizia? 
Le avevo già accennato alla questione relativa alla riorganizzazione di Cosa nostra, che rispetto a dieci o quindici anni fa è molto indebolita sotto il punto di vista militare, e anche su questo aspetto è doveroso dire che l’organizzazione non è definitivamente piegata, però è ancora in circolo una quota consistente del capitale mafioso. Riteniamo che ci siano menti raffinate, organiche o contigue all’organizzazione, che stanno cercando di ripulire questi enormi capitali in importanti attività commerciali e imprenditoriali apparentemente legali. Il rischio è quello di una strisciante legalizzazione di Cosa nostra. Non più stragi, omicidi, lotte intestine, ma controllo dell’economia che conta e per questa via infiltrazione della politica e di altre istituzioni. 
 
Pecunia non olet? 
Giudico pericoloso il rientro in Italia, consentito dal cosiddetto scudo fiscale, di 95 miliardi di euro, che, non dimentichiamolo, rientrano nella piena disponibilità di soggetti che li avevano illegalmente trasferiti all’estero. Quindi, è facile prevedere che altrettanto illegalmente possano reimpiegarli e investirli. 
 
Oltretutto con un costo inferiore a quella che sarebbe stata una “normale” operazione di riciclaggio. Un costo che dal 15% sul capitale iniziale, con lo scudo si abbasserebbe al 5%. 
Infatti. Sono assolutamente d’accordo con lei. E poi sono altrettanto preoccupanti alcune riforme che sono in discussione. Il disegno di legge sulle intercettazioni comporterebbe, se approvato, delle gravissime limitazioni anche nelle indagini antimafia, in particolare per quelle riguardanti i colletti bianchi, i reati contro la pubblica amministrazione che costituiscono il grimaldello attraverso il quale la criminalità organizzata penetra e condiziona le istituzioni. Le limitazioni all’indagine tecnica in materia di pubblica amministrazione piuttosto che di turbativa d’asta e gestione illecita delle gare d’appalto, certamente comporterebbero delle gravi conseguenze sulla possibilità di scoprire le infiltrazioni mafiose. 
 
In ballo c’è, da tempo, anche la limitazione dell’azione dei pm. 
C’è l’ipotesi di riforma del Codice di procedura penale, e mi riferisco al disegno di legge governativo che tende a limitare i poteri del pubblico ministero nella fase delle indagini e a concentrare l’iniziativa delle inchieste esclusivamente sulla polizia giudiziaria. Chi potrà garantire, mi chiedo, l’efficace svolgimento di indagini che per esempio riguardino esponenti politici di quello stesso esecutivo dal quale gerarchicamente dipende la polizia giudiziaria? Come fa ad agire la polizia giudiziaria senza lo scudo del pm? Come potrà la polizia giudiziaria sviluppare efficacemente indagini in materia di politica, di pubblica amministrazione, che magari riguardino soggetti dai quali quel poliziotto e quel carabiniere dipendano anche gerarchicamente? 
 
Andiamo alle stragi e alla trattativa. Tutto è iniziato poco più di anno fa con le prime indiscrezioni sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza. Perché parlare ora? Perché sedici-diciassette anni di silenzi? 
Perché mi occupo direttamente di queste indagini e di questi processi e quindi non posso entrare nello specifico sperando un giorno di arrivare a inserire le mie valutazioni in requisitorie e comunque in provvedimenti giudiziari. Quello che posso dirle, e lo dico con piena convinzione, è questo: nel contesto complessivo nella lotta alla mafia, al di là di quelli che sono i proclami propagandistici o previsioni di debellare entro poco tempo definitivamente il fenomeno, io credo che le inchieste e i processi sulle stragi e la trattativa fra mafia e Stato assumano una valenza fondamentale nel contesto complessivo della situazione anche attuale. Perché fino a quando lo Stato non avrà la forza e il coraggio, anche a costo di arrivare quasi a processare se stesso, finché non avrà la forza di sciogliere definitivamente il nodo dell’esistenza o meno di patti o accordi con i vertici di Cosa nostra, lo Stato rappresenterà sempre un potere dimezzato. Perché possibile oggetto di ricatto mafioso. Noi potremo in futuro arrestare altre decine, centinaia, di “picciotti”, di uomini d’onore, ma fino a quando non ci sarà verità piena sulle stragi e sulla trattativa potenzialmente lo Stato sarà sempre oggetto di possibile ricatto. E questo è assolutamente inaccettabile per chi crede che Stato e mafia debbano essere sempre, in ogni momento, due entità non solo distinte e separate ma due entità contrapposte. Non possono trovare spazi di dialogo, spazi di accordo. 
 
Vi accusano di indagare su fantasie, di cercare fantasmi. 
Quando si dice che indagare sulle stragi e sulla trattativa mafia e Stato in quel periodo, costituisce uno spreco di risorse economiche e di energie investigative, non si capisce o si finge di non capire che la vera sconfitta di Cosa nostra non può passare attraverso gli arresti e le condanne, ma passa attraverso la neutralizzazione del potere di ricatto di Cosa nostra, attraverso la neutralizzazione di ogni tentativo anche eventualmente attuale e futuro di dialogo o di accordo a qualsivoglia livello tra la mafia e lo Stato. 
 
Un ruolo fondamentale per la riapertura di queste indagini lo ha avuto il figlio dell’ex sindaco di Palermo Ciancimino, Massimo. È entrato o meno in un programma di protezione per i collaboratori? 
Ciancimino, grazie anche ai documenti che ha fornito, ci ha dato le condizioni per avere un quadro più completo e verificare e riscontrare le sue dichiarazioni. Il problema di definire il dichiarante collaboratore o meno è solo un problema formale. Tra l’altro, Ciancimino non ha mai fatto richiesta di essere sottoposto a un programma di protezione e quindi di transitare ufficialmente nelle fila dei collaboratori di giustizia sottoposti a programma. Siamo arrivati comunque al punto cruciale di avere presto la possibilità di ottenere verifiche concrete sull’affidabilità delle sue dichiarazioni. Pur mantenendo una posizione molto laica nelle valutazioni anche per la delicatezza degli argomenti trattati, rispetto a quando è iniziato questo percorso di Ciancimino possiamo avere gli strumenti per capire fino a quando le sue dichiarazioni potranno essere riscontrate.
 
Dopo l’arresto del latitante Domenico Raccuglia a novembre sono emersi segnali che questi, con altri, avesse la capacità e le risorse per mettere in atto azioni eclatanti. È davvero così, i segnali sono davvero così preoccupanti?
Le posso dire questo. Al di là di questo segnale degno di elevatissima attenzione…
 
Quindi il segnale c’è.
Sì, il segnale c’è. Diciamo che è emersa la capacità di poter fare un’azione del genere. Però è necessario dire anche questo: chi da decenni è abituato ad analizzare e studiare il fenomeno e a confrontarsi con le indagini e i processi sa benissimo che la storia di Cosa nostra anche da un punto di vista della capacità e della volontà di contrapporsi frontalmente allo Stato con attentati o omicidi eccellenti è una vicenda di corsi e ricorsi. È nel dna di Cosa nostra la necessità e la capacità di ricorrere allo scontro frontale quando l’organizzazione lo ritiene opportuno e necessario per se stessa. Soltanto chi non conosce bene la storia di Cosa nostra e il suo modo di ragionare può sottovalutare determinati rischi solo perché negli ultimi quindici anni ha mantenuto un profilo basso, di immersione. Negli anni Sessanta, ad esempio, si dava per scomparsa Cosa nostra, in scioglimento, poi dalla strage di viale Lazio in poi è tornata a essere più pericolosa e più forte di prima.

 

Pietro Orsatti (in www.orsatti.info, 3 gennaio 2010)

 

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