Proponiamo un estratto dalla prefazione di Marco Travaglio a "Il patto" di Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci (Chiarelettere, pp. 342, euro 16).
A un certo punto del loro racconto,
Nicola Biondo e
Sigfrido Ranucci buttano lì una frase che è la chiave del libro: «Sarà un caso, ma dal 1994 in Italia non si è più verificata una strage». Poco più avanti, ricordano quando
Salvatore Riina, dalla gabbia del processo Scopelliti, il 25 maggio 1994 diede la linea al primo governo Berlusconi appena insediato: «C’è tutta questa combriccola, il signor Caselli, il signor Violante, questo Arlacchi che scrive libri... Ecco, secondo me il nuovo governo si deve guardare dagli attacchi di questi comunista (sic)».
Cinque mesi dopo il presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi dichiarò da Mosca: «Speriamo di non fare più queste cose sulla mafia, perché questo è stato un disastro che abbiamo combinato insieme in giro per il mondo. Dalla Piovra in giù. Non ce ne siamo resi conto, ma tutto questo ha dato del nostro paese un’immagine veramente negativa. Quanti sono gli italiani mafiosi? Noi non vogliamo che un centinaio di persone diano un’immagine negativa nel mondo».
Sei giorni dopo, dalla solita gabbia, Riina gli rispose a tono: «È vero, ha ragione il presidente Berlusconi. Queste cose sono invenzioni, tutte cose da tragediatori che discreditano l’Italia e la nostra bella Sicilia. Si dicono tante cose cattive con questa storia di Cosa nostra, della mafia, che fanno scappare la gente. Ma quale mafia, quale piovra! Sono romanzi... Andreotti è un tragediato come sono tragediato io. E Carnevale più tragediato ancora. Questi pentiti accusano perché sono pagati, prendono soldi».
Quattordici anni dopo, alla vigilia delle elezioni del 12 aprile 2008 che l’avrebbero consacrato premier per la terza volta, il Cavaliere poté essere ancora più esplicito di un tempo, avendo assuefatto gli italiani a digerire tutto, anche i sassi, anche la beatificazione di un mafioso sanguinario morto con una condanna per mafia, una per droga e una in primo grado all’ergastolo per duplice omicidio: «Mangano era un eroe».
Ora che, dall’estate del 2009, tutti (o quasi) parlano delle trattative fra Stato e mafia che diedero il via libera alla Seconda Repubblica – mentre
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, i ragazzi delle scorte e i cittadini inermi di Milano, Firenze e Roma saltavano in aria e gli uomini del cosiddetto Stato facevano la faccia feroce in Parlamento e la faccia commossa ai funerali – è tutto un fiorire di «misteri», «veleni», «ombre», «interrogativi». Ma io non vedo alcun mistero. Alcun veleno. Alcun’ombra. Alcun interrogativo.
A me pare tutto così chiaro. Basta mettere in fila i fatti.
Incollarli l’uno all’altro in ordine cronologico. Poi riavvolgere il nastro e vedere il film tutto intero. Il film che questo libro prezioso ci restituisce in tutti i suoi fotogrammi. Almeno in quelli fin qui noti, che comunque bastano e avanzano per capire tutto.
Perché si parla di quei fatti solo 17 anni dopo, anche se i nove decimi delle cose che vengono spacciate da giornali e tv come nuove, sono vecchie come il cucco?
Massimo Ciancimino, ad Annozero, ha dato una risposta efficace: «Io non sono mica come gli ospiti di Gigi Marzullo, che si fanno una domanda e si danno una risposta. Se certe cose non me le ha chieste nessuno, perché avrei dovuto raccontarle io?». A quel punto c’era da attendersi che sciami di giornalisti si precipitassero da colui che quelle domande non fece, o non fece fare: il procuratore nazionale antimafia
Piero Grasso, che era procuratore capo di Palermo quando partì l’indagine su Ciancimino jr. Perché né lui, né il suo fedelissimo aggiunto
Giuseppe Pignatone né i solerti sostituti che seguivano l’inchiesta rivolsero mai una sola domanda al figlio di don Vito sulla trattativa intrecciata da suo padre con i carabinieri del Ros durante e dopo le stragi del 1992? Così, tanto per sapere se lui non ne sapesse qualcosa. Eppure fior di pentiti avevano parlato di quella trattativa. E perché, per fare quelle fatidiche domande, la Procura di Palermo dovette attendere di cambiare capo, nella persona del dottor
Francesco Messineo, che riportò nel pool antimafia i magistrati che il dottor Grasso e il Csm avevano a suo tempo allontanato?
L’unica spiegazione, volendo escludere la malafede (per carità), è che il dottor Grasso e i suoi fedelissimi credessero nelle coincidenze.
Perché di coincidenze il nostro film è costellato dalla prima all’ultima scena. È proprio un monumento a Santa Coincidenza.
[…] Ora si spera che, dopo 18 anni trascorsi a obbedir tacendo, ritrovino un po’ di memoria e un po’ di coraggio anche quei carabinieri che la ragion di Stato e qualche politico ancora nell’ombra ha costretto per troppo tempo a combinarne e a dirne di tutti i colori.
Forse bisogna attendere la fine della Seconda Repubblica per poterne aprire finalmente la scatola nera, come fu per la Prima con Tangentopoli.
Forse il patto d’acciaio che lega i trattativisti della prima fase, legati all’Ancien Regime e traghettati nel «nuovo», e quelli della seconda fase che portò all’accordo e alla Pax Mafiosa è ancora troppo saldo per consentire spiragli di verità. Ma in quel monolite bipartisan cominciano ad aprirsi le prime crepe. E spetta alla libera informazione – di cui Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci sono un ottimo esempio – e alla società civile il compito di vigilare e possibilmente di spalancarle sempre di più. Alla fine la verità, come dimostra anche questo libro, è più forte di tutte le coincidenze, di tutte le censure, di tutte le ragion di Stato, di tutti i coperchi.