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La verita' di Mori e l'inquietante domanda: Borsellino sapeva? PDF Stampa E-mail
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Scritto da Anna Petrozzi e Lorenzo Baldo   
Martedì 02 Marzo 2010 22:38
Ci prova in ogni modo l’avvocato del generale Mori, Piero Milio, a innervosire Massimo Ciancimino e a tentare di farlo cadere in contraddizione. Comincia con la singolare pretesa che il teste si rivolga esclusivamente alla Corte e che quindi non lo guardi in faccia quando risponde alle sue domande. E alla richiesta di chiarimento da parte del pubblico ministero Milio lancia il suo primo coup de théâtre: perché se no gli vengono suggerite le risposte!
Il pubblico ministero Nino Di Matteo non asseconda il giochetto e chiede che siano acquisiti gli atti per individuare eventuali irregolarità nel processo. Solo col saggio intervento del presidente Fontana si evita l’effetto polemico che dovrebbe snervare il teste. Che invece in tutta tranquillità riesce a chiarire le presunte contestazioni che l’avvocato ha cercato di sollevare per tutta la durata del controesame.
In effetti le domande dell’avvocato si limitano a lunghe letture di parti di interrogatorio rese nel corso di tutto il percorso collaborativo di Massimo Ciancimino che come è stato evidenziato più volte anche nel corso delle scorse udienze si è svolto in progress con reticenze iniziali colmate poi velocemente con la produzione di documenti.
La ragione di un contro interrogatorio così blando da parte del difensore si capisce solo più tardi quando, dopo che il Presidente del tribunale con domande, queste sì, chiare e precise approfondisce alcuni aspetti poco chiari della lunga deposizione di Ciancimino, la parola è passata al generale Mori.

La vera difesa in effetti è affidata allo stesso imputato cui fanno gioco le confuse contestazioni dell’avvocato Milio che piano piano acquistano ragion d’essere.
Come annunciato già dalle scorse udienze il generale Mori ha dato lettura per più di un’ora e mezza di un memoriale (prodotto in una ventina di copie consegnate poi alla stampa) che più di una dichiarazione spontanea ha tutte le caratteristiche di una arringa finale.
Secondo quanto perentoriamente sostenuto dall’alto ufficiale dell’Arma Massimo Ciancimino avrebbe costruito nel corso degli anni, in seguito alle diverse risultanze processuali inerenti i fatti in oggetto e alle varie interpretazioni giornalistiche, una versione dei fatti affine all’impianto accusatorio sostenuto dai magistrati al fine di ottenere benefici in particolare nell’ambito del processo che l’ha visto condannato in appello a 3 anni e mezzo di reclusione per riciclaggio.

Per smontare le dichiarazioni del figlio maschio più piccolo di Don Vito, il generale Mori ha esaminato punto per punto le parti più rilevanti fornendo per ognuna una sua spiegazione.
Innanzitutto la trattativa. Come già sostenuto anche in altre sedi il generale rifiuta categoricamente di connotare quale sorta di negoziazione il dialogo con Don Vito che era e resta invece, a suo modo di vedere, lo sfruttamento di una normale fonte confidenziale seppure di alto livello. E di particolare interesse perché il vecchio sindaco, in quel preciso momento, siamo nel 92, era in una posizione debole in quanto rischiava ulteriori provvedimenti giudiziari. Su questa base e al solo scopo di farlo collaborare per ottenere informazioni sui corleonesi alla testa di Cosa Nostra era stato avviato il colloquio.
A conforto della sua versione Mori richiama più volte lo stesso Ciancimino Vito rileggendo sia le dichiarazioni che questi rese alla procura di Palermo, ai pm Caselli e Ingroia, nel gennaio del 1993 sia quanto da lui scritto nell’ormai celebre abbozzo di libro dal titolo: Le mafie.
Mori intende dimostrare così che don Vito non avanzò mai nessuna ricostruzione dei fatti diversa da quella resa pubblicamente sia nell’immediatezza degli avvenimenti sia in epoca molto successiva quando risentito dai magistrati di altre procure volle confermare quanto già dichiarato. Non lo avrebbe fatto, deduce Mori, se, come invece sostiene il figlio, si fosse sentito tradito e abbandonato, anche dai carabinieri e quindi avrebbe potuto vendicarsi in ogni momento riferendo un’altra verità.
Massimo Ciancimino ha invece dichiarato che il padre gli disse che quanto scritto in quel testo era una versione concordata con i due ufficiali del Ros allo scopo di tutelare i propri figli dal coinvolgimento in una trattativa che aveva comunque portato alla cattura del capo di Cosa Nostra. Precauzione che avrebbe un suo valore anche al di là di un qualsivoglia tradimento.

Chi dei due abbia ragione dovranno poi sancirlo i giudici. Entrambe le valutazioni potrebbero avere una loro fondatezza e una potrebbe prevalere sull’altra solo in presenza di ulteriori riscontri.
Quanto alla datazione degli incontri, altra questione spinosa, il generale ha anticipato in aula alcuni brani della deposizione resa dalla dottoressa Liliana Ferraro ai magistrati di Palermo e Caltanissetta in data 14 ottobre 2009, depositata agli atti ma non ancora ribadita in dibattimento.
Nella parte letta e sottolineata dal generale a suffragio della sua tesi la dottoressa Ferraro, che sostituì Falcone al Dipartimento degli Affari Penali, racconta di aver incontrato il capitano De Donno attorno al trigesimo della strage di Capaci, quindi il 23 giugno 1992 e nell’ambito di un discorso più ampio circa il grande senso di smarrimento investigativo dopo la perdita di Falcone questi le disse:
“… che era venuto il momento di provare tutte le strade e che, essendo Vito Ciancimino un personaggio di spessore, avevano pensato di sondare la possibilità che lo stesso iniziasse un rapporto di collaborazione. Mi disse anche che aveva preso contatti col figlio Massimo e che attraverso di questi pensava di agganciare o aveva già agganciato, non ricordo bene, Vito Ciancimino”.
Secondo Mori tale deposizione proverebbe senza ulteriore indugio che in quella data (fine giugno 92) “il cap. De Donno aveva preso contatto con il solo Massimo Ciancimino e si riprometteva di poterlo fare, in prosecuzione, con il padre. Ne consegue – scrive il generale nel memoriale – che le affermazioni di Massimo Ciancimino, il quale sostiene che, prima del 29 giugno 1992, il padre aveva parlato già due o tre volte con il col. Mori, sono false e falsa, quindi, è tutta la ricostruzione della vicenda”.
Una conclusione forse un po’ troppo netta e azzardata dato che la dott.ssa Ferraro afferma: “…pensava di agganciare o aveva già agganciato, non ricordo bene, Vito Ciancimino”. Difficilmente un “non ricordo bene” può considerarsi una prova schiacciante contro una testimonianza diretta e non de relato, tuttavia anche in questo caso la verità potrà essere ristabilita nella sua interezza solo da nuovi auspicabili elementi e dalla valutazione della Corte.

Quel che invece il generale Mori non evidenzia è proprio la novità più importante dell’udienza di oggi: la conferma a verbale della dottoressa Ferraro che il giudice Borsellino era al corrente di questo tentativo di dialogo dei carabinieri con Vito Ciancimino.
Evento che non può aver lasciato indifferente il magistrato dato che, come ha ricordato lo stesso Mori, una delle piste più importanti perseguite dal giudice alla ricerca degli assassini dell’amico Falcone era proprio quella degli appalti e Vito Ciancimino era stato, si legge sempre nel memoriale,  “il dominus che aveva rivestito e che ancora in parte rivestiva nel condizionamento degli appalti pubblici e più in generale la sua funzione di cerniera tra il monto politico-imprenditoriale e l’ambito mafioso”.
Perché non lo informarono, come hanno sempre sostenuto i due ufficiali? Perché non si consultarono con la massima autorità in materia di contrasto a Cosa Nostra: Paolo Borsellino, per interagire con una fonte “problematica” che rappresentava “indubbi pericoli, anche personali”?
Perché tacergli un indizio di indagine così importante? Ed è possibile che Borsellino con il ticchettio delle lancette che scandivano le ultime ore della sua vita nelle orecchie non abbia chiesto conto di un dato così rilevante riferitogli da un esponente istituzionale così illustre?

Visto che siamo ancora nel campo delle ipotesi non è assurdo presupporre che se a Vito Ciancimino interessava tutelare i figli per non coinvolgerli nella cattura di Riina, ai carabinieri interessa invece allontanare da quei colloqui la data della strage di via D’Amelio visto che già la corte di Firenze nella parte oggi non rammentata dal puntuale memoriale di Mori aveva già individuato una responsabilità morale dei carabinieri nell’aver cercato un dialogo che nella mente di Riina era risuonato come un pericoloso avallo.
“…Sotto questi aspetti vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era
idonea a portare vantaggi all’organizzazione”. (pag. 1585)
Ma di questo dettaglio così prorompente e forse cruciale per scoprire tutto quanto ancora non sappiamo della strage di via D’ Amelio nessuno avrebbe mai parlato se non lo avesse fatto Massimo Ciancimino.
E’ presto per liquidarlo come un furbo approfittatore, la partita sul punto è tutt’altro che chiusa.

Anna Petrozzi e Lorenzo Baldo (Antimafiaduemila, 2 marzo 2010)





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