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Mafia: 18 arresti e il cerchio si stringe attorno al latitante Matteo Messina Denaro PDF Stampa E-mail
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Scritto da Rino Giacalone   
Lunedì 15 Marzo 2010 22:14


Qual’è il volto della mafia trapanese? È il viso di imprenditori, professionisti, di insospettabili commercianti, uomini che hanno scelto di servire il capo mafia latitante Matteo Messina Denaro non nascondendo la devozione riservata nei suoi riguardi, «è il capo di tutto» lo appellano.

C’è affianco a questi volti quelli della vecchia mafia che non abbandona mai il campo, come quella di «don» Nino Marotta, classe 1927, castelvetranese: fu «consigliori» del patriarca della mafia belicina, «don» Ciccio Messina Denaro, adesso lo è del figlio, Matteo, 48 anni il prossimo aprile, latitante dal 1993. Marotta era tra quelli che convocava i «summit» quando c’era qualcosa da decidere, dentro una officina di Castelvetrano, il segnale erano le sue parole che annunciavano a chi doveva esserci «che il pezzo di ricambio era arrivato». Una cerchia di 18 persone finita in manette stanotte a Trapani nell’operazione “Golem II”, 18 persone fermate per ordine della Procura antimafia di Palermo, provvedimento eseguito dai Poliziotti delle Mobili di Trapani, Palermo e dello Sco.

Una mafia tutt’altro che remissiva, in ritirata, pronta a compiere balzi in avanti e per questo la Dda di Palermo (procuratore aggiunto Teresa Principato, pm Paolo Guido e Marzia Sabella) non ha voluto attendere i tempi per la emissione da parte del gip di una ordinanza di custodia cautelare ed ha deciso di agire con i fermi. Ad agire la scorsa notte il «pool» che ha condotto le indagini, gli agenti delle squadre mobili di Trapani e Palermo e dello Sco (servizio centrale operativo di Roma). La notte scorsa sono andati a bussare alle porte di personaggi insospettabili, alle abitazioni dei familiari del latitante, nella casa della madre Lorenza dove vive anche la compagna del boss, Francesca Alagna, che a Matteo ha dato una figlia oggi quindicenne e che porta lo stesso nome della nonna. Una casa dove in ogni stanza ci sono due foto poste sui mobili, quella di Francesco, morto in latitanza nel 1998, di crepacuore per l’arresto del figlio Salvatore, oggi tornato in manette, e quella di Matteo, il segno preciso è dire che «loro ci sono». Caparbietà trasferita anche all’esterno come testimoniano le intercettazioni che hanno permesso di ascoltare i complici di Matteo Messina Denaro discutere di tante cose.


Il vertice

La mafia trapanese è nelle mani dei più stretti parenti del super boss, il fratello Salvatore Messina Denaro, il cognato Vincenzo Panicola, Giovanni e Matteo Filardo, suoi cugini. Loro guidavano il «cerchio» di persone più vicine al latitante, Salvatore Messina Denaro era indicato da tutti come «la testa dell’acqua», arrestato l’altro suo cognato, il bagherese Filippo Guattadauro, toccò a Salvatore diventare il referente per i contatti da e per il fratello latitante. Quella della scorsa notte è l’operazione che è il seguito di quella dell’estate scorsa, «Golem» quando furono arrestati i «pizzinari» che gestivano il circuito esterno, quelli di ora sono soggetti vicinissimi al latitante, che hanno avuto (lo tradiscono nelle loro discussioni finite intercettate) occasione di incontrarlo, come racconta di avere fatto l’imprenditore di Castelvetrano Giovanni Risalvato, lo stesso che è pronto a mettersi a disposizione per fare da manovale, andare a bruciare la casa per esempio del consigliere comunale del Pd di Castelvetrano Pasquale Calamia, «punito» in questa maniera per avere auspicato durante una seduta consiliare (presente il prefetto Trotta) l’arresto del latitante così da cancellare la nomea di Castelvetrano città di Messina Denaro.



Gli arrestati

A finire in manette sono stati: Salvatore Messina Denaro, 57 anni, Maurizio e Raffaele Arimondi, 44 e 50 anni, Calogero Cangemi, 61 anni, Tonino Catania, 43, Lorenzo Catalanotto, 30 anni, Andrea Craparotta (detto Giovanni), 46, Giovanni e Matteo Filardo, 47 e 42 anni, Leonardo Ippolito, 55, Marco Manzo, 45, Antonino Marotta, 83, Nicolò Nicolosi, 39, Vincenzo Panicola, 40, Giovanni Risalvato, 56, Filippo Sammartano, 52, Salvatore Sciacca, 30, Giovanni Stallone, 52. Tra i 18, sei sono imprenditori, Raffaele Arimondi, Calogero Cangemi, Giovanni e Matteo Filardo, Nicolò Nicolosi, Vincenzo Panicola; due commercianti Maurizio Arimondi e Giovanni Stallone. Nel corso dell'operazione, sono state eseguite oltre 40 perquisizioni, nelle province di Trapani, Palermo, Torino, Como, Milano, Imperia, Lucca, Siena e Caltanissetta, nei confronti di altrettanti soggetti, ed è stato eseguito il sequestro preventivo penale di un'impresa commerciale per la distribuzione all'ingrosso di caffè e prodotti dolciari (la società Ari gestita da Salvatore Messina Denaro), di un centro revisioni e officina autorizzata Alfa Romeo e di un esercizio pubblico.



Il reticolo

Il reticolo che custodisce il capo mafia latitante poco alla volta sta venendo alla luce, si scoprono i capi saldi, i punti di riferimento, i complici, vicini e lontani, gli arresti di oggi sono il prosieguo dell ’indagine «Golem» del giugno scorso quando gli arrestati furono 13, la «prima filiera esterna« di sostegno a Matteo Messina Denaro, con alcuni, come Francesco Luppino e Natale Bonafede, che garantivano i contatti con gli allora vertici regionali di «Cosa Nostra», tra cui, Salvatore Lo Piccolo. Gli arresti costituiscono un nuovo step tattico nella strategia investigativa volta alla individuazione progressiva dei successivi livelli gerarchici di responsabilità che costituiscono la filiera funzionale dei sostenitori del latitante castelvetranese». Una cerchi di sodali che si occupavano di estorsioni, danneggiamenti, di trovare un rifugio al latitante, della occulta gestione delle «casseforti» del boss. Punti di riferimento Salvatore Messina Denaro e Vincenzo Panicola, ma anche  soggetti come Giovanni Risalvato e Leonardo Ippolito, veri e propri trait-d'union tra le due fasi gestionali della compagine mafiosa. L’officina Alfa Romeo di Ippolito era adibita a luogo sicuro dove di norma avvenivano gli incontri, sempre presenti Filippo Guttadauro, fino al suo arresto, Nino Marotta, Giovanni Risalvato, Giovanni Filardo, Lorenzo Catalanotto, Girolamo Casciotta, ora deceduto, e Tonino Catania, quest’ultimo specialista negli incendi.


L’attività mafiosa

La spartizione di lavori  tra imprenditori organici o contigui a «Cosa Nostra» castelvetranese, regolamentarne o incentivarne le attività lavorative quali l'affidamento di lavori in sub appalto, condizionare nell’area di Castelvetrano il sistema produttivo del conglomerato cementizio, del movimento terra e di altri settori produttivi connessi, per la fornitura del calcestruzzo alle imprese che operavano nella zona di Castelvetrano. Oppure occuparsi direttamente dei nascondigli del latitante, un passaggio finito intercettato quando ad occuparsene su incarico di Filippo Guttadauro dovevano essere proprio Tonino Catania, Giovanni Risalvato e l’imprenditore caseario di Partanna Calogero Cangemi, che aveva frequentazioni importanti anche con mafiosi agrigentini, come Gino Guzzo, arrestato di recente. Doveva essere una casa con grandi comodità per ospitare Messina Denaro. L’officina di Ippolito non era l’unico luogo degli incontri. Salvatore Messina Denaro spesso preferiva parlare con i suoi «amici» all’esterno, in piazza, in riva al mare, a Tre Fontane, in un appezzamento di terreno nei pressi di una folta vegetazione di alberi di ulivi, oppure a Campobello nei pressi di una statua votiva di San Padre Pio. Il gruppo finito in manette la notte scorsa nell’operazione «Golem seconda fase» è quello che si occupava della trasmissione della corrispondenza da e per il soggetto latitante, nonché del reperimento periodico di somme di denaro per il suo sostegno logistico. Le intercettazioni hanno consentito di accertare il confezionamento di involucri  di piccolissime dimensioni, arrotolate accuratamente nel nastro adesivo, in cui venivano racchiuse banconote da 500 euro inviate a Matteo Messina Denaro, ancora appellato, come avveniva 12 anni addietro, quando l’operazione «Progetto Belice» tradiva che Matteo era appellato come «u siccu». Oggi Matteo è anche indicato come «il primo assoluto», proprio per segnare il suo comando incontrastato della mafia in Sicilia Occidentale. In una intercettazione ambientale del 15 novembre 2008, fatta a Palermo, Giuseppe Scaduto, relazionando i suoi interlocutori sull'incontro avvenuto il giorno prima con il gruppo dei dissidenti (a cui pure aveva partecipato l'allora latitante Giovanni Nicchi), riferiva che la fazione legata a Gaetano Lo Presti aveva tirato fuori un pizzino di Matteo Messina Denaro, che  pur dichiarandosi a disposizione di tutti, non era intenzionato a «riconoscere» nessuno come nuovo capo della commissione provinciale.
Matteo Messina Denaro, dunque, pur non potendo formalmente rivestire cariche verticistiche nella consorteria palermitana a lui estranea, si poneva e si pone come l'unica figura carismatica a tutt'oggi capace di imprimere le linee strategiche dell'intera Cosa nostra e il cui orientamento finisce per assumere carattere imperativo.


I pizzini, istruzioni per l’uso

È stato possibile ricostruire  la tempistica della corrispondenza inviata dal latitante e delineare anche il ruolo dei soggetti coinvolti e arrestati. L'apparato delle comunicazioni è strutturato, a differenza di quanto accadeva nella catena epistolare del boss corleonese Provenzano, nell'osservanza di due ferree regole, divieto di lasciare traccia materiale sia dei biglietti che dei movimenti posti in essere per la consegna/prelievo degli stessi , nonché ridurre al minimo il numero dei tramiti e le occasioni in cui la posta viene veicolata. E spunta ancora il Sisde di Mori. Parte dell’indagine è anche dedicata ai contatti – ancora pizzini - tra Messina Denaro e l’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino che tra il 2003 ed il 2006 su incarico di alti funzionari dell'ex «SISDE» teneva contatti con il boss. Una parte dell’indagine scottante, per la quale la Procura ha scritto alla presidenza del Consiglio a proposito di alcune intercettazioni che hanno riguardato uomini dell’allora capo del Sisde prefetto Mori, l’intervento dei servizi segreti è stato tenuto anche all’oscuro della Procura antimafia di Palermo, e questo fino al 2006 quando i pizzini trovati nel covo di Provenzano tradivano contatti che Matteo Messina Denaro aveva con un certo “Vac”, lo indicava al boss di Corleone come un suo paesano, che sarebbe dovuto intervenire su alcuni appalti, come la costruzione di un’area di servizio sull’autostrada dalle parti di Alcamo. Solo in quel momento il Sisde avrebbe deciso di rilevare che Vac, cioè Vaccarino, era un loro informatore. L’analisi degli specialisti della Polizia ha permesso di scoprire che il latitante Matteo Messina Denaro è solito mandare i suoi pizzini in tre precisi momenti dell’anno, tra gennaio e febbraio, tra maggio e giugno e tra settembre ed ottobre. Il “viaggio” di questi pizzini non è di breve durata, di solito occorrono almeno tra le due e le quattro settimane.


Contatti dal carcere

Ma c’è di più, emerge ancora il ruolo di un altro potente uomo del Belice, l’imprenditore Giuseppe Grigoli, il «re» dei centri commerciali Despar, arrestato due anni addietro e oggi sotto processo a Marsala, coimputato con Messina Denaro: sia prima che dopo il suo arresto, e quindi, nonostante la detenzione, è riuscito a mantenere contatti attraverso i familiari con la consorteria mafiosa, in particolare con Salvatore Messina Denaro, lui che davanti ai giudici aveva detto che «mai aveva avuto contatti con i boss». Familiari di Grigoli, come la moglie, Maria Fasulo, sono tra i destinatari dei 40 avvisi di garanzia emessi dalla Procura antimafia di Palermo, indagati per favoreggiamento.



Panettoni e colombe pasquali per le estorsioni

Nell’indagine c’è poi il capitolo sui attentati, incendi, danneggiamenti, nei confronti di commercianti, imprenditori, soggetti politici, nonché alle gestione occulta di imprese, società  e beni, attraverso specifici casi di trasferimento fraudolento di valori, intestazioni fittizie a fidati prestanome. Una delle aziende è la «Ari Group srl», società per l'importazione, l'esportazione ed il commercio all'ingrosso ed al dettaglio di caffè, interamente intestate a Maurizio Arimondi e al figlio Antonino, ma nella mani di Salvatore Messina Denaro. Filippo Sammartano di Campobello di Mazara gestiva la «Mac. One» col cognato Giovanni Stallone. Sembra che l’azienda veniva usata per estorcere denaro ad imprenditori, costretti a comprare sostanziose forniture di panettoni e colombe pasquali a secondo dei periodi dell’anno.



Il fuoco per le intimidazioni

A proposito di attentati incendiari a scopo intimidatorio o estorsivi, emergono i seguenti: l'attentato incendiario a scopo intimidatorio perpetrato, nei confronti dell'imprenditore Francesco Perrone, amministratore dell'impresa «Perrone Costruzioni srl», commissionato da Leonardo Ippolito a Tonino Catania e Girolamo Casciotta, che a loro volta coinvolgevano anche Salvatore Lombardo, ucciso nel maggio dell’anno scorso a Partanna; il tentativo di incendio, a scopo estorsivo,  nei confronti dei proprietari del bar denominato  «Caffè Roma» di Castelvetrano, per indurre i titolari nel recedere dall'acquisto dell'immobile, dove aveva sede l’esercizio commerciale; l’attentato incendiario a scopo intimidatorio delle strutture di proprietà dell'impresa impegnata nella realizzazione di un serbatoio da 3.600 mq e delle condotte di alimentazione dal punto di presa Acquedotto Bresciana, lavori appaltati dal comune di Castelvetrano.
All’opera sono stati visti grazie alle intercettazioni video, Giovanni Risalvato, Lorenzo Catalanotto, Tonino Catania, il pregiudicato mafioso campobellese Marco Manzo, oltre che di Nicolò Nicolosi negli incendi tra l' ottobre 2008 ed il marzo 2009, l’incendio in diversi momenti delle tre auto intestate al pregiudicato Severino Lazzara, dell’auto di Nicola Clemenza, presidente del consorzio per la tutela e la valorizzazione dei prodotti agricoli del territorio della valle del Belice, il quale aveva rivendicato i diritti degli agricoltori oleari costretti dal mercato a vendere il prodotto a prezzi stracciati; l'incendio nel novembre 2008 della villetta sita in Castelvetrano, località Triscina, in uso a Pasquale Calamia, consigliere comunale di Castelvetrano del Pd, il quale nel corso di un consiglio comunale, nel mese di giugno del 2008, aveva formulato pubblicamente al Prefetto di Trapani l'auspicio che la latitanza del Matteo Messina Denaro, che era una offesa per la città di Castelvetrano, potesse terminare in tempi brevi. Agli atti di indagine c’è l’estorsione all’imprenditore di Ganci Luigi Spallina ordinata da Salvatore Messina Denaro. Spallina era aggiudicatario dell'appalto per il polo tecnologico integrato in contrada Airone di Castelvetrano, appalto di Belice Ambiente Ato Trapani 2, per un importo di euro 2.936.597. Messina Denaro chiese il 3 per cento, 100 mila euro.


Le regole

La regola che funzionava era quella che a pagare il pizzo dovevano essere le imprese non del territorio, gli «stranieri», per le imprese locali valeva un’altra regola quella di acquisire le commesse, cemento, ferro, inerti, sub appalti, presso le società della mafia, ma per ottenere ciò i boss non dovevano faticare per favorire le società loro vicine o da loro stesse controllate, le commesse arrivavano in modo automatico, in virtù di quel sistema che ha permesso alla mafia di diventare impresa. E al solito non c’è imprenditore che si lamenta. Anzi è pronto a diventare uomo nelle mani del boss pronto a imparare a memoria la ortodossia mafiosa, quella che Messina Denaro aveva spiegato nei pizzini inviati a Vaccarino dove parlava di persecuzione giudiziaria e di una guerra che deve ancora continuare. Intanto oggi a perdere è stato lui, non ha più a disposizione i complici più fidati.



Rino Giacalone (
Antimafiaduemila, 15 marzo 2010)





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