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Io ricordo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro PDF Stampa E-mail
Documenti - Per non dimenticare
Scritto da Serena Verrecchia   
Domenica 23 Maggio 2010 16:08
Nonostante sia una nottata grigia e ombrosa, riesco a vedere comunque la stelle. Sono belle, silenziose, ci osservano. Tra tutte queste meravigliose luci nella notte ce ne è una che brilla più delle altre e credo di sapere chi ci sia su quella stella.
La storia comincia diciotto anni fa, sull'autostrada per Palermo, allo svincolo di Capaci. Alcune auto sfrecciavano sull'asfalto cocente ad una velocità maggiore rispetto a tutte le altre. Gli uomini che si trovavano sulle automobili erano appena tornati in Sicilia dopo un lungo soggiorno nella capitale.
Uno degli uomini al volante si chiamava Giovanni Falcone, aveva cinquantatrè anni, ma il suo nome era già entrato nelle pagine della storia italiana. Giovanni era nato a Palermo ed era vissuto in quella città per la maggior parte della sua esistenza. Avrebbe potuto trascorrere una vita normale quell'uomo, se solo fosse nato da un'altra parte. Avrebbe potuto avere figli, sposare la donna amata, trascorrere ore ed ore a nuotare nell'azzurro del mare come avrebbe desiderato.

La sorte, però, volle assegnare quest'uomo alla Sicilia e abbandonarlo nella terra della mafia, nella casa di Cosa nostra; ma Giovanni Falcone non cadde nella rete dell'illegalità che intrappolava Palermo. No, lui decise di fare il giudice, di indossare la toga e di prendere parte ad una guerra crudele ed impetuosa che non gli avrebbe certo risparmiato la vita. Giovanni Falcone lo sapeva, eppure ogni giorno gli si presentava la via di scampo da tutta quella crudeltà: poteva fare i bagagli e scappare da quell'inferno per potersi dedicare ad una vita tranquilla e serena. Tuttavia Giovanni sapeva anche che se mai avesse intrapreso la via della pace e della serenità personale non avrebbe mai più avuto il coraggio di guardarsi allo specchio. Per questo decise di rimanere in trincea a combattere il terribile nemico. Egli amava la sua città, per quanto oscura e crudele potesse apparire. Amava la Sicilia e amava i siciliani onesti, non poteva permettere a qualcuno di privare sè stesso e i suoi concittadini della libertà e della dignità di uomini. Così, da abile cecchino, mise a segno tanti di quei colpi devastanti al nemico che lo indusse ad odiarlo dal profondo del cuore.
L'avversario era Cosa nostra, ma non aveva una faccia. Quel volto glielo diedero pian piano Giovanni, il suo migliore amico Paolo e tutti gli appartenenti alla squadra di assedio. Questa Cosa nostra era un nemico ostinato e incallito che passò subito al contrattacco: nel giro di qualche anno, fece fuori tutti i combattenti migliori della squadra. Ma Giovanni Falcone era ancora lì, sempre pronto, sempre pericoloso per i suoi nemici. Era un uomo dotato di un coraggio eccezionale, di un'intelligenza straordinaria e di una forza d'animo inimmaginabile. Per questo Cosa nostra (e chissà chi altri???!!!!) decise di eliminarlo e scelse come data una di quelle giornate calde palermitane in cui il termometro, nel pomeriggio, arriva a segnare anche i trenta gradi.
Giovanni era alla guida di una delle auto e accanto a lui era seduta sua moglie Francesca Morvillo, magistrato anche lei.
A qualche metro dallo svincolo per Capaci, qualcuno azionò il pulsante che smantellò completamente l'asfalto e trascinò nella morsa della morte le auto e i loro passeggeri. Dopo qualche minuto le vite di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli angeli della scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro giunsero al capolinea, i loro occhi si chiusero per sempre e i loro cuori cessarono di emanare affetto e vita...

Io non ero nata quel giorno di diciotto anni fa, perciò non conservo nessun ricordo di quella terribile giornata, ma è inevitabile che mi senta completamente coinvolta in quel turbine di emozioni che la morte di Giovanni Falcone ha suscitato. Purtroppo o per fortuna (decisamente per fortuna!!), la mia vita non è più tornata la stessa da quando ho colto il significato della strage di Capaci e da quando il sorriso di quel giudice palermitano è entrato perennemente nella mia esistenza.
Mi sento in debito con quest'uomo che proclamava che "gli uomini passano, ma le loro idee camminano sulle gambe di altri uomini" e non riuscirei mai ad avere pace se non riuscissi a ripagare quest'obbligo morale a cui la morte di Giovanni Falcone mi ha legata.
Questo debito consiste nel proseguire la sua opera di assedio alla criminalità organizzata e nel rendere realizzabile la sua utopia di vedere la Sicilia e l'Italia intera libera dalla mafia e dall'oppressione criminale. Se non riuscissi a perseguire questo obiettivo, o almeno non tentassi di farlo, il sacrificio di Giovanni, Francesca e gli uomini della scorta sarebbe stato vano e la mia stessa vita non avrebbe alcun senso.

Serena Verrecchia













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