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Esposti, polemiche e fughe di notizie. Sul pool antimafia tornano i veleni PDF Stampa E-mail
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Scritto da Nicola Biondo   
Sabato 24 Luglio 2010 11:03
A dare fuoco alle polveri il sottosegretario agli interni Mantovano. Di operazioni di depistaggio avevano parlato Veltroni e il procuratore Nico Gozzo

Ormai è scontro aperto. Su Gaspare Spatuzza, sulle indagini delle procure antimafia, sul ruolo dei pentiti. Sembra il remake delle afose giornate della fine degli anni ’80, quando il pool antimafia venne fatto a pezzi. In poche ore succede davvero di tutto: esposti al Csm contro la procura nissena, fughe di notizie, polemiche tra maggioranza e opposizione.

A dare fuoco alle polveri il sottosegretario agli interni Alfredo Mantovano che annuncia un esposto al Csm contro i vertici della procura di Caltanissetta, Sergio Lari e Nico Gozzo, “perché valuti l’opportunità di richiamare i magistrati al riserbo e del rispetto delle istituzioni”.  Mantovano, presidente della commissione che ha negato lo scorso giugno lo status di pentito a Spatuzza, si è sentito tirato in causa da alcune dichiarazioni dei magistrati che stigmatizzavano proprio la mancata concessione del programma di protezione. “Resto sconcertato – dice l’esponente del Pdl - per la superficialità con cui magistrati producano battute rilasciate in fretta polemizzando con altri organi dello Stato”. L’intero Pdl difende Mantovano. Gaetano Quagliarello denuncia “le incontinenze verbali dei magistrati”.

Durissime le reazioni delle opposizioni. “'E' tutto paradossale – dice il senatore Pd Garaffa. Anziche' ribadire un grande consenso ai magistrati, il sottosegretario Mantovano invia un esposto al Csm contro la procura nissena''. “Il governo – gli fa eco Giuseppe Lumia, ex-presidente Pd all’Antimafia- farebbe bene a chiedere severità e rigore nei confronti di quei giudici che screditano il prestigio della magistratura, come sta accadendo nel caso della P3”. Parlare di Spatuzza fa davvero imbestialire il centro destra. L’uomo che sta riscrivendo la storia di via D’Amelio è da tempo nel mirino. Da quando scelse di non fare l’eroe alla “Mangano” facendo ai magistrati i nomi di Berlusconi e Dell’Utri come coloro che avevano stretto un patto nel 1994 con Cosa nostra. Da allora, era l’autunno scorso, un florilegio di insulti al pentito e ai magistrati che lo ascoltavano. Fino alla mancata concessione del programma di protezione con una decisione che non ha precedenti  e che metterà nelle mani del Tar – che poco o nulla sa di mafia – la decisione finale sul collaboratore.

Uno scontro istituzionale, quello innescato dal governo, che ricorda il passato, la Palermo dei veleni e dei depistaggi che fecero naufragare il pool antimafia di Falcone e Borsellino. Veleni e fughe di notizie che come sempre riappaiono quando le inchieste toccano verità indicibili, santuari di potere che non vogliono farsi processare, che scelgono quale verità propalare.

Ieri la procura di Firenze ha aperto un’inchiesta su una fuga di notizie inerente le dichiarazioni di Spatuzza. Gli investigatori avevano provato a trovare riscontri all’incontro che si sarebbe tenuto nel gennaio del 1994 a Roma tra l’allora killer di mafia e i fratelli Graviano. Ma un articolo comparso su La Stampa ha bruciato in parte le indagini riservate. Ancora più grave è stata sempre ieri la comparsa, nelle colonne dello stesso giornale, dei nomi di due nuovi testimoni per la strage di Via D’Amelio. “Sbalorditi per questa ennesima fuga di notizie”- questa la reazione a caldo della procura nissena. Ancora una volta nel corso delle delicate indagini sulla strage di via D’Amelio indiscrezioni di stampa mettono a repentaglio il lavoro dei magistrati e la sicurezza  dei testimoni. Una strana vicenda quella riportata sul quotidiano torinese che riguardava le mancate indagini sul luogo dove si sarebbero appostati i killer del giudice Borsellino. Strana perché l’Unità sulla vicenda aveva 5 giorni prima realizzato un’inchiesta, totalmente saccheggiata e riproposta come esclusiva da La Stampa che per sovrapprezzo ha inopinatamente pubblicato anche i nomi dei testimoni esponendoli ai rischi conseguenti. Di operazioni di depistaggio avevano parlato proprio all’Unità nei giorni scorsi Walter Veltroni e il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo. Dice Veltroni: “Se i mezzi di informazione non si lasceranno trascinare in pericolose operazioni di depistaggio (le fughe di notizie sono uno dei modi classici), se chi indaga sarà messo in grado di accedere alle fonti di informazione, ecco, allora davvero la verità sarà a portata di mano”. Un allarme denunciato anche da Gozzo nella sua intervista di domenica scorsa: “C’è una campagna di disinformazione in corso, uno schema che riappare ogni qualvolta le indagini sfiorano i livelli alti. L’obiettivo è sabotare le indagini con notizie artefatte, costruite in laboratorio”.

Un estate che si preannuncia caldissima sul fronte antimafia. Come quella del 1989, quando menti raffinatissime costruirono a tavolino l’isolamento di Giovanni Falcone e nel contempo ne progettavano la morte fisica, con l’attentato all’Addaura presso la villa dove il magistrato trascorreva il periodo estivo. In quel caso l’attentato venne preceduto dalle famigerate lettere anonime del Corvo che accusavano Falcone di scorrettezza nella gestione dei pentiti. Pochi però ricordano che quelle infamità vennero confermate da due articoli comparsi su quotidiani al di sopra di ogni sospetto, come La Repubblica e La Stampa. “Falcone e Buscetta si incontrano a Palermo” – venne scritto. Peccato che la notizia era falsa, soffiata a due giornalisti da uno 007 dell’Alto Commissariato antimafia, ufficio oggi sotto i riflettori delle nuove inchieste siciliane. Il copione pare ripetersi, logoro e pericolosissimo.


Nicola Biondo (l'Unità, 24 luglio 2010)









Via D'Amelio, Gozzo: 'Fu golpe'


«In Italia con le stragi di mafia c’è stato un golpe». A parlare è Nico Gozzo, procuratore aggiunto della procura di Caltanissetta dove è stata riaperta l’inchiesta sulla strage contro Paolo Borsellino e i cinque ragazzi della sua scorta.
Ha accettato di parlare a tutto campo. «Perché indagare sulla strage di via D’Amelio – spiega - è come usare una lente d’ingrandimento per vedere com’è diventato questo paese 18 anni dopo la morte di Paolo Borsellino». E allora vediamolo questo paese con gli occhi di un magistrato, giovane, garantista, che solo per un attimo non riesce a mascherare l’emozione quando ricorda gli ultimi giorni del giudice ucciso: «Ci sono persone che potrebbero darci spunti importanti sugli ultimi giorni della sua vita, ma purtroppo sono quelli che lo hanno tradito. Ciò che più mi addolora è che, in quei 56 giorni dopo Capaci, Borsellino ha sofferto la solitudine e il tradimento».

Dottor Gozzo, com’è l’Italia vista da Caltanissetta, con gli occhi di chi indaga sulla strage di via D’Amelio e sulla trattativa Stato-mafia?
«È un paese brutto, capace di dare tutto il peggio di se stesso. Un paese dove non esistono buoni e cattivi, dove il potere corrompe tutto o quasi. L’Italia migliore è quella dei cittadini senza potere, quella delle migliaia di persone che a Caltanissetta sono scese in piazza per non farci sentire soli ed esposti, come se il nostro lavoro non servisse niente».

La vostra procura sta riscrivendo la storia della “strage Borsellino” a partire dalla dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. È emerso che Vincenzo Scarantino, sulle cui dichiarazioni si sono fondate due sentenze definitive, è un falso pentito e che fu addestrato da uomini della polizia. È la solita vecchia Italia dei depistaggi?
«Spatuzza si è assunto la responsabilità di aver rubato lui l’auto servita per l’attentato. E sta fornendo ulteriori elementi, ma ovviamente non posso parlare dell’indagine in corso. Di certo, le sue dichiarazioni hanno reso inevitabile un riesame dei momenti successivi alla strage. Attualmente la nostra procura è impegnata su tre fronti: da una parte trovare i riscontri a quanto dice Spatuzza, molti dei quali sono - è ormai noto - di segno positivo. Dall’altro, dovremo fornire alla Procura generale gli elementi per rivedere le posizioni di alcuni dei condannati. Infine, affrontare la questione delle responsabilità esterne a quella mafiosa».

Anche nella “strage di Borsellino” come in tutte le altre, appare l’ombra del depistaggio istituzionale. Avete interrogato tre dei dirigenti di polizia che gestirono Scarantino...

«Non ci sono dubbi che la morte di Borsellino fu voluta da Cosa Nostra. Come appare chiaro che qualcosa non andò per il verso giusto durante le indagini. Cosa sia intervenuto è l’oggetto della nostra inchiesta. Non posso dire nulla sugli interrogatori, ma è chiaro che analizzeremo con grande attenzione le parole di tutte le persone che abbiamo sentito».

Non c’è il rischio che eventuali reati connessi al depistaggio dell’indagine siano già prescritti?
«Mi pare presto per parlare di argomenti che affronteremo, eventualmente, al termine dell’indagine sull’eventuale depistaggio».

Quali sono i buchi neri della strage, le domande senza risposta?
«Quelli che lei chiama “i buchi neri” riguardano il commando che aspettava il giudice in via D’Amelio e l’uomo che ha premuto materialmente il pulsante del telecomando del massacro. Purtroppo si sono persi molti pezzi della ricostruzione. Penso al luogo dove si piazzarono gli attentatori, vicenda sulla quale le indagini hanno lasciato a desiderare (vedi l’Unità di ieri, ndr), e alle tante testimonianze che sono venute a mancare».

A cosa si riferisce?
«Lo riassumo facendo io alcune domande: perché nessun pentito ha mai raccontato la fase esecutiva dell’attentato? Perché l’uomo che fornisce il telecomando per la strage si suicida in carcere? C’erano due squadre in azione quel 19 luglio: una che doveva intervenire presso la casa del giudice, l’altra, quella che poi ha compiuto la strage, pronta a operare in via D’Amelio. Da chi erano composte queste due squadre e come hanno saputo, con sicurezza, che il giudice sarebbe andato lì quella domenica?».

Reticenze dei mafiosi, ma anche di uomini di Stato.
«È così. Forse a intralciare le indagini sono state analisi errate. Ma non mi sento di buttare la croce su chi ha indagato prima di noi. Il pubblico ministero è cieco e sordo, nel senso che possiamo vedere e sentire solo tramite la polizia giudiziaria. Quanto alla pretesa “anomalia” di due stragi così ravvicinate, in realtà - purtroppo - non sono per Cosa Nostra una rarità. Poi è ormai chiaro che la morte dei due giudici è stata il risultato di un’unica strategia mafioso-terroristica per far capitolare lo Stato, per farlo scendere a patti».

Dunque Borsellino muore per la trattativa?
«Muore anche per la trattativa. E ci sono molte persone che lo potrebbero raccontare. Alcune di esse vanno ricercate tra alcuni dei cosiddetti “amici” di Paolo Borsellino. La cifra essenziale della sua morte è la solitudine e il tradimento. Una cosa orribile per un uomo come lui che aveva bisogno di voler bene, di dare e ricevere fiducia».

Perché le indagini sulle stragi fanno tanta paura? Berlusconi ha detto che è un complotto contro di lui, che si tratta di “cose vecchie”.
«Vorrei rassicurare il Presidente. Se parla così, credo sia mal consigliato. Non c’è alcun complotto. Lo posso dire con serenità: a partire dal 1997 ho archiviato più di un’inchiesta che lo riguardava. Ho l’impressione che qualcuno cerchi di alimentare il risentimento di Berlusconi contro la magistratura per ottenere una compressione della democrazia nel nostro paese».

Lei è stato pubblico ministero nel primo processo contro il senatore Marcello Dell’Utri. Si aspettava la condanna anche in secondo grado?
«Assolutamente sì. Purtroppo, in questa vicenda, ci sono silenzi pesanti che fanno pensare che certi rapporti non siano solidi come vengono dipinti. Ad esempio, il silenzio di Silvio Berlusconi quando, nell’ambito dell’inchiesta Dell’Utri, gli chiedemmo conto del rapporto con il suo collaboratore. In quel caso decise di non difendere davanti ai magistrati il socio di una vita».

Non ci dovrebbe essere un dovere politico e morale di chiarire?
«Chi indaga sulla mafia, sulle stragi, ha un desiderio: che il sistema politico sia autorevole, che non sia esposto a ricatti. Credo che, dopo la sentenza Dell’Utri, il presidente del Consiglio, che è anche il mio presidente, abbia un’occasione: lasciare finalmente il senatore al suo destino e dire finalmente cosa è successo nei 22 anni in cui Dell’Utri ha lavorato per lui e le sue aziende e, nello stesso tempo, con la mafia. Quello che nessuno può fare è dire ai magistrati di Palermo e Firenze, competenti sulle indagini post-1993, che la magistratura non ha il dovere di continuare ad indagare».

La questione morale non riguarda solo la politica, ma investe, come emerge dall’inchiesta sulla cosiddetta P3, anche la magistratura.
«Nel passato alcuni uffici giudiziari furono definiti “porti delle nebbie” dove sempre si archiviavano le inchieste più scottanti. L’abitudine di certi magistrati di frequentare ambienti politici, imprenditoriali o centri di potere più o meno occulti non è venuta meno, anzi. Purtroppo nessun ambiente è immune per definizione da germi corruttivi. È per questo che chi indaga si trova di fronte ad un paese in chiaroscuro dove il confine tra buoni e cattivi è sempre più labile. È il caso anche di un certo modo di fare giornalismo».

È una fissazione di alcuni o davvero in Italia c’è il rischio che la magistratura venga asservita alla politica?
«La questione centrale non è solo l’autonomia della magistratura, ma quella della polizia giudiziaria che deve essere indipendente da centri di potere politico ed economico. Le indagini sul campo vengono fatte dalla Pg e se questa subisce condizionamenti è davvero finito tutto».

Lei di recente, commentando notizie di stampa sulle inchieste per la strage di via D’Amelio, ha usato parole molte dure. Queste: «Chi scrive certe cose fa il gioco di chi in Italia ha voluto, con le stragi di mafia, fare un golpe».
«Sono convinto che l’Italia è un paese di patti e ricatti, dove ci sono persone che utilizzano la stampa con fughe di notizie o la propalazione di cose non vere. Se alcuni giornalisti avessero il coraggio di ammettere di essere stati contattati, forse usati, da oscuri personaggi, e ci dicessero chi sono, arriveremmo più facilmente alla verità sulle stragi. C’è una campagna di disinformazione in corso, uno schema che riappare ogni qualvolta le indagini sfiorano i livelli alti. L’obiettivo è sabotare le indagini con notizie artefatte, costruite in laboratorio. So di apparire impopolare con questa mia presa di posizione oggi che si discute del Ddl intercettazioni e del bavaglio alla stampa. Ho un grande rispetto del lavoro dei giornalisti, ma un certo modo di fare giornalismo può essere anch’esso una forma di bavaglio, una distorsione della realtà, un intralcio alla giustizia».

È uno scenario da brivido: trattative, stragi, ricatti e depistaggi a mezzo stampa.
«In Italia tra il ‘92 e il ‘93 si è consumato un golpe. Un sistema politico è stato spazzato via con le stragi. Ci sono state trattative e lo confermano ufficiali dei Carabinieri. Questo è un fatto già accertato da sentenze. Ci accusano di ascoltare uno come Massimo Ciancimino, ma lui è stato indubbiamente testimone di alcuni fatti. Saremmo stati pessimi investigatori se non avessimo ascoltato la sua versione dei fatti».

Però ci sono state perplessità e anche qualche attrito con la Procura di Palermo.
«Non c’è nessuna spaccatura: è normale che, anche in una stessa Procura, ci siano modi diversi di vedere una fonte di prova. È la modalità delle “produzioni documentali”, diluite nel tempo, che può condurre ad una più difficile utilizzazione delle prove. Il nome di Massimo Ciancimino come testimone di quella vicenda non lo inventano i magistrati, ma gli stessi ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno, che incontravano suo padre. Alla fine valuteremo l’attendibilità del suo contributo. Ma si ricordi che in questa storia non ci sono né buoni né cattivi».


Nicola Biondo (
l'Unità, 19 luglio 2010)










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