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Verità e Giustizia: il sacrificio di Terranova e Saetta PDF Stampa E-mail
Documenti - Per non dimenticare
Scritto da Veronica Sammaritano e Serena Verrecchia   
Sabato 25 Settembre 2010 00:05
 "La Sicilia è una terra in cui si sono generati i peggiori mali, ma è anche una terra che ha dato i natali a tutti i più grandi eroi del nostro paese, possessori di vite straordinarie spese al servizio di una nobile causa: la ricerca della Verità ai fini del trionfo della Giustizia. Il 25 settembre il ricordo si divide in due parti e ci fa rivivere le vicende che portarono alla morte due grandi servitori dello Stato, due uomini semplici, ma due magistrati che, per compiere il proprio dovere nel modo in cui fecero, dovevano avere davvero qualcosa di molto speciale: il coraggio."
Sono gli anni della mattanza, le strade palermitane vengono quotidianamente macchiate di sangue. E’ l’ennesimo affronto di Cosa Nostra allo Stato, l’assassinio del 25 settembre 1979: la vittima è il magistrato Cesare Terranova. Il lavoro di quest’uomo, la costanza, la sua forza d’animo hanno consentito enormi passi avanti nella lotta alla criminalità organizzata.
Cesare Terranova nasce a Palermo il 25 agosto del 1921. Qui trascorre la sua adolescenza; conosce a fondo la sua città, l’aria che si respira, percepisce la contiguità tra mafia e Stato. E’ un assiduo bisogno di Giustizia, di Legalità che lo spingono a laurearsi in giurisprudenza e approdare al Tribunale di Palermo come Capo dell’Ufficio Istruzione. Fin da subito si dedica alle delicate indagini riguardanti i Corleonesi. Cesare intuisce per primo la pericolosità di Cosa Nostra, la sua complessa e rigida struttura: perciò istruisce il primo processo contro i clan mafiosi a Bari. Ma in quel clima di colpevole indifferenza, i colleghi ritengono le sue ipotesi troppo avventate, così tutti gli imputati vengono assolti. E’ un duro colpo, ma Cesare non demorde. Le sue indagini procedono e nel 1974 riesce a far condannare all’ergastolo Luciano Liggio, la primula rossa di Corleone. Dopodiché decide di portare le sue idee a Roma e viene eletto deputato alla camera tra i banchi del PCI. Collabora fianco a fianco con Pio La Torre nella stesura della Relazione di Minoranza dei partiti di Sinistra. Entra a far parte della Commissione Nazionale Antimafia. Qualche anno dopo, nel 1979, decide di tornare in Sicilia come Capo dell’Ufficio Istruzione a Palermo. Il suo ritorno è frutto di preoccupazione tra i boss palermitani che tramano vendetta. A fermare il giudice Cesare Terranova è il piombo di Cosa Nostra, la mattina del 25 settembre 1979 intorno alle 8.30.
Il giudice si trova a bordo della sua Fiat 131 con l’agente di scorta, il suo angelo custode da ben vent’anni, Lennin Mancuso. Freddati entrambi. Terranova muore sul colpo, Mancuso, invece, qualche ora dopo in ospedale. Sia Di Cristina che Francesco di Carlo dichiarano la volontà di Liggio di vendicarsi delle accuse del ’74, ma il comando che uccide il giudice è composto da tre fedelissimi di Riina: Bagarella, Madonia, Gambino e un luogotenente di Michele Greco.                                                                                                                                               
"Quello che tu puoi fare è solo una goccia nell'oceano, ma è ciò che dà significato alla tua vita" queste le parole di Albert Schweitzer che Cesare amava ogni tanto citare. E forse, tutti dovremmo seguire il suo esempio, avere in noi quella di vena di coraggiosa speranza che animò la vita di questo eroe.                                
Oggi possiamo ringraziarlo per il suo arduo lavoro, dobbiamo ricordarlo perché il sangue sparso ingiustamente non cada nell’oblio della memoria ma sia di stimolo per le nuove generazioni al fine di ricercare quella Verità, quella Giustizia che ancora viene negata.


 
Antonino Saetta è stato un giudice italiano, nato a Canicattì, in terra di Sicilia, nel 1922. Essere un giudice e nascere in Sicilia spesso equivale a morire nel tentativo di far trionfare le leggi basilari della Giustizia e di compiere fino in fondo il proprio dovere. Antonino Saetta non è certo un’eccezione a questa regola.
Egli era un magistrato “silenzioso”: non amava rilasciare interviste, non scriveva su giornali o riviste, non lo coinvolgevano le vicende politiche e non indossava le vesti del paladino della Giustizia. Amava solo compiere il proprio dovere; così come amava i classici, le opere d’arte e suo figlio Stefano, un ragazzo che, in tenera età, aveva avuto a che fare con problemi psico-neurologici. Il padre trascorreva tutto il suo tempo libero con il figlio ed è per lui che, nel 1976, decise di trasferirsi a Genova. La lontananza dalla terra di trincea però, non fossilizzò il suo lavoro di giudice, che, invece, proseguì sulla cattedra della Corte d’Appello di Genova, impegnata, in quei difficili anni, nella lotta di contrasto alla Brigate Rosse.
Tornato a Caltanisetta, dovette presiedere il processo Chinnici, che si concluse con l’ergastolo inflitto a Salvatore e Michele Greco, per poi approdare a Palermo come Presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello.
Negli anni Ottanta, arrivarono sulla sua scrivania le carte riguardanti il processo contro gli assassini del capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale il 4 maggio del 1980. Gli imputati erano già stati precedentemente assolti, in risposta al tentativo di Cosa nostra di avvicinare rappresentanti della Giustizia, tra cui lo stesso Presidente della sezione d’Assise, per cercare un attenuante, un compromesso che garantisse l’impunità ai killer e la vita ai servitori dello Stato. Questa “simbiosi” però, si ruppe quando gli efferati killer della mafia si trovarono di fronte quel giudice tanto diverso dagli altri, lontano anni luce dal primitivo concetto di collusione e sottomissione alla criminalità.

Con la parola “ergastolo” si concluse anche questa sentenza.

È per quella fermezza permeata di coraggio e onestà, che Nino Saetta era stato scelto come giudice che doveva presiedere il processo d’Appello del maxi processo di Palermo.
Totò Riina e i suoi uomini, che già presagivano la vendetta per la sentenza contro gli assassini del capitano Basile, erano consapevoli che la speranza di un’assoluzione per loro non era solo lontana, ma irraggiungibile. Per questo, a dodici giorni dall’omicidio del giudice Giacomelli, Cosa nostra decise di mandare all’altro mondo anche Antonino Saetta. Sulla statale Agrigento-Caltanisetta, una BMW rubata affiancò l’auto (non un’auto blindata con la scorta, ma una semplice Lancia Prisma) del giudice, che era diretto, insieme al figlio Stefano, a Palermo, dove lo aspettava l’altro figlio, Roberto. Una carrellata di colpi di arma da fuoco pose fine alla vita dei due.
Stefano, vittima inconsapevole di una realtà spregevole che non risparmia nessuno e Antonino, condannato a morte per le condanne che lui stesso aveva emanato; perché era una persona “normale”, un uomo che amava la propria famiglia, il proprio lavoro e che era abituato a fare il proprio dovere, a non piegarsi alle logiche servili di una società del tutto schiava della criminalità organizzata. Un uomo normale in un mondo di folli.
Oggi Antonino Saetta incarna il modello a cui si ispirano tutti quei magistrati che, come lui, non si piegano al compromesso e donano la propria vita a quella causa utopica che è la Giustizia.
Se tutti noi scegliessimo di vivere con quel briciolo di coraggio in più, quell’utopia potrebbe diventare realtà.
 
Veronica Sammaritano e Serena Verrecchia











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