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Pignatone: «Vantaggi a chi non fa patti con la mafia» PDF Stampa E-mail
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Scritto da Lionello Mancini   
Domenica 02 Gennaio 2011 19:10

PALERMO - «Lo ammetto, sono riusciti a stupirmi». Chi, procuratore? «Quanti ancora oggi si affidano ai boss, chiedono loro indicazioni di comportamento». Succede, dove la mafia è radicata, come in Calabria. «Il problema è non tanto la mafia, perché quando intercettiamo un capocosca ci aspettiamo che questo tessa contatti, cerchi di agganciare persone che possano essergli utili, le persone più diverse. Ma cadono le braccia al sentire che è il boss a essere cercato dagli altri, da candidati politici, amministratori locali, professionisti, questo è sconvolgente». E quindi cos'avete fatto? «Quello che facciamo sempre in questi casi: il 21 dicembre abbiamo arrestato un nuovo gruppo di mafiosi e di collusi, tra cui un componente del Consiglio regionale.

E non abbiamo finito. Ma non si aspetti da me notizie su indagini o giudizi politici: io sono solo un Procuratore della Repubblica». Giuseppe Pignatone, 61 anni, siciliano doc, è "solo" il magistrato che ha coordinato le operazioni culminate con la cattura di Bernardo Provenzano; che ha fatto condannare l'ex Governatore Salvatore Cuffaro; che ha capito e accompagnato la svolta dell'impresa siciliana contro il pizzo. E, dall'aprile 2008, Pignatone è "solo" il capo della Procura di Reggio Calabria.
Nel suo studio di Palermo, dove rilascia questa intervista, centinaia di libri, tomi giuridici, ritagli di giornale, un vecchio computer, cellulari bollenti e le foto della sua famiglia che ha preferito non trasferire a Reggio, dove da quasi tre anni vive, solo, in una caserma dei carabinieri.

Procuratore, un anno fa, la notte del 3 gennaio, il primo attentato dinamitardo davanti a un ingresso del vecchio tribunale. Ne sarebbero seguiti un altro e diverse intimidazioni senza precedenti per la mafia calabrese.
Certo, la bomba di un anno fa è stato un passaggio importante, perché finalmente si sono accesi i riflettori sulla Calabria, il Governo si è riunito a Reggio e ha risposto con forza, rilanciando con un aumento delle forze di polizia e con nuove iniziative legislative: l'Agenzia per i beni sequestrati, la raccolta in un Codice unico delle leggi antimafia, la definitiva identificazione della 'ndrangheta come organizzazione mafiosa unica, verticistica, strutturata. Prima, accanto a Cosa nostra e camorra, nel codice penale seguiva un "e altre organizzazioni comunque localmente denominate". Una differenza enorme.

Perché?
Per una serie di motivi tecnico-processuali che sarebbe noioso spiegare qui. Basti dire che così è più facile dimostrare atteggiamenti collusivi e di concorso esterno.

Dal suo punto di osservazione, cos'è accaduto di importante in questi 12 mesi? Mi riferisco a magistratura e forze di polizia, alla politica, al governo, alla società civile, alle forze economiche e - sul fronte opposto - ai mafiosi.
È importante che possiamo ancora contare su uno strumento indispensabile come le intercettazioni. Stiamo sempre soffrendo la carenza di magistrati e personale amministrativo nella nostra sede, che ha carichi di lavoro enormi. Però in aprile arriveranno 5 pm e 12 giudici. Speriamo... Quanto all'azione repressiva condotta con le forze dell'ordine, i fatti parlano da soli e, insieme alla gravità degli attentati e delle intimidazioni ai magistrati, anche i nostri risultati hanno contribuito a illuminare il "cono d'ombra" in cui si nasconde ma anche langue il Reggino. Capitolo più complesso quello del risveglio della società civile, che finora ha espresso segnali sparsi ma anche significativi e che si vanno consolidando. Le imprese? Ancora in troppe devono scegliere da che parte stare. Ci sono dei tentativi di imboccare strade diverse, lo vedo e ne riconosco il valore. Ma per ora non molto di più.

Eppure solo con la repressione, senza l'adesione dei cittadini e la partecipazione dei giovani, nessun cambiamento è possibile. Lei lo ha già sperimentato in Sicilia.
Lo so. Penso anche che i cittadini di quest'area partano molto svantaggiati. La quantità di affiliati e la densità criminale riscontrata nel Reggino non ha paragoni in altri luoghi del Paese. Cambiare rotta non è facile: ma sempre più persone ci stanno provando e noi cerchiamo di creare le condizioni perché questo possa avvenire.

Torniamo alle imprese.
Tema delicatissimo. Quasi tutta l'imprenditoria locale è legata a commesse pubbliche o a subappalti. I comportamenti e le scelte della pubblica amministrazione e dei grandi committenti del nord sono gran parte del problema. Sono stati i grandi affaristi, i faccendieri, gli amministratori infedeli e anche i grandi gruppi che negli anni hanno "lasciato crescere il mostro". Continuare ad atteggiarsi a vittime non convince più.

Usa un linguaggio molto duro con il mondo delle imprese.
Né duro né mellifluo. Dico le cose come le vediamo attraverso gli atti. Non dimentichiamo che certe realtà imprenditoriali hanno responsabilità enormi, non fosse altro che per gli enormi flussi di denaro che gestiscono. E non di rado trovo il loro atteggiamento incongruo. Un esempio: abbiamo analizzato a fondo le denunce di danneggiamenti, attentati, intimidazioni avvenuti negli ultimi due anni nei cantieri della A3 Salerno-Reggio Calabria. Oltre 200, dicono l'Anas e gli altri general contractors che ci lavorano, ripetendo: così non possiamo continuare, troppa pressione mafiosa, chi ci garantisce? Noi chiudiamo e ce ne andiamo.

Mi pare ci sia del vero, perché le considera solo lamentazioni?
Perché lo dicono i fatti. Una buona parte dei 200 attentati sono danneggiamenti modesti, furti di cantiere, atti vandalici. La parte restante, comunque un'enormità, sono attentati veri, intimidazioni mafiose che hanno obiettivi diversi dal danneggiamento fine a se stesso. Qui c'è l'incongruenza: tutti ci dicono che la mafia li assedia, poi dai testi delle denunce emerge lo scenario, assai diverso, di cantieri circondati da vandali e teppisti. Tutti i denuncianti, dico tutti, hanno sempre categoricamente escluso di aver ricevuto richieste di estorsione o subito pressioni. Invece io ripeto a tutti: dove c'è una vittima c'è per forza un carnefice. Denunciatelo, questo carnefice e noi ve lo arrestiamo, com'è avvenuto ogni volta che in questi due anni, e ancora pochi giorni fa, abbiamo ricevuto denunce precise. Così come pure sono stati centinaia gli arresti per associazione mafiosa. Purtroppo, invece, in Calabria c'è lo stesso clima per il quale la collega Boccassini strattona gli imprenditori lombardi usurati e ricattati dalla 'ndrangheta, ma compostamente silenziosi con noi.

Dopo l'operazione "il Crimine" la vostra visuale è più articolata e completa.
Lavorare in pool con altre procure e con la Direzione nazionale antimafia è stato un grande passo avanti nella strategia di contrasto. E ci ha portato a consolidare il quadro delle nostre intuizioni, con una svolta che definirei fondamentale nella conoscenza del fenomeno.

Una svolta fondamentale?
È noto che il primo passo per battere un nemico è quello di conoscerlo a fondo. Aggiungo che dopo decenni di vuoto, da alcuni mesi stiamo interrogando diversi collaboratori di giustizia e spesso mi sento chiedere se siamo vicini a rivelazioni tali da mettere in ginocchio la 'ndrangheta, come accadde con Tommaso Buscetta per Cosa nostra, una ventina d'anni fa. Ebbene, posso dire che quel grado di conoscenza l'abbiamo già acquisito con l'indagine "il Crimine". Ora il nostro compito è quello di aggiornare continuamente queste conoscenze, senza fossilizzarci, senza cadere in mitizzazioni e senza sottovalutare nuove acquisizioni. Insomma il lavoro continua, ma ora il quadro è ben più chiaro e aggiornato rispetto a 10 anni fa.
Com'è il nord delle grandi imprese, visto da qui?
Deprimente, come lo è il sud, purtroppo. Tranne, come dicevo, eccezioni anche di rilievo, ma pur sempre eccezioni. Anche qui vale un esempio: lo scorso novembre, l'Associazione costruttori di Palermo si è dotata di un codice etico in cui si stabiliscono "trasparenza e supporto a chi decide di denunciare" estorsioni o altro, ma si annunciano anche severe verifiche periodiche, sospensioni ed espulsioni per gli iscritti condannati anche solo in primo grado per collusione o per aver pagato il pizzo. I costruttori di Palermo, capisce? Da sempre considerati i più a rischio. Ma non ancora quelli di tante città del Nord.

Il problema è arrivare a mettere in sicurezza l'intero sistema economico legale dalle infiltrazioni mafiose.
Gli strumenti normativi, i protocolli territoriali, i codici etici, tutto questo ormai si sta diffondendo, sia pure con maggior o minore credibilità e voglia di rispettarne i dettami. Il punto centrale è che bisogna smontare quella convenienza che porta ancora molti imprenditori a scegliere di stare dalla parte sbagliata. Perché, come ripete il mio collega Michele Prestipino, "l'imprenditore lavora con i bilanci e il 31 dicembre di ogni anno deve fare in modo che i conti tornino. Altrimenti chiude". Possiamo fare discorsi altisonanti e molto etici: quelli piacciono a tutti e non trovi nessuno in disaccordo. Però credo che per scardinare il sistema funzioni una sola leva: rendere antieconomico il patto con la mafia.

E come si rende antieconomico il patto con la mafia?
La ricetta magica non l'ha nessuno. Ma la logica vuole che il patto abbia almeno due contraenti quindi bisogna agire su entrambi. Sul lato mafia sappiamo già cosa fare - arresti, condanne, confische dei beni - e dobbiamo continuare a farlo con sempre maggior efficienza, efficacia e senza sconti. Sull'altro contraente, l'imprenditore, alcune cose sono state fatte, come la nuova legislazione sugli appalti pubblici che obbliga alla denuncia, pena l'esclusione dalla gara. Ma si deve fare di più, come istituire le white list delle aziende da premiare per il loro comportamento virtuoso, da privilegiare nell'attribuzione dei lavori pubblici. Sono questioni complesse, ma penso che al sistema punitivo attuale vada affiancato un sistema premiale che renda conveniente la fedeltà allo Stato. Ma questo, come dicevo, non è compito mio: io sono solo un Procuratore della Repubblica...


Lionello Mancini

Da: Ilsole24Ore.it


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