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"La mafia è viva e prospera in un Nord senza autodifese" PDF Stampa E-mail
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Scritto da Thierry Pronesti   
Martedì 15 Febbraio 2011 17:18
Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia, è stato ospite ad Aosta e ha discusso dei rischi per il nostro Paese
 

AOSTA. «Scappare non serve a niente. A 27 anni fuggii da Palermo per stabilirmi nel milanese: non volevo crescere una famiglia in una società oppressa dalla mafia. Con l'uccisione di mio fratello e dei suoi cinque agenti di scorta capii di aver fatto una scelta egoistica. E quando i flussi finanziari delle cosche iniziarono a prendere possesso anche dell'economia brianzola, compresi che scappare non era servito a niente». Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia il 19 luglio del 1992 nella strage di via d'Amelio, è stato ospite sabato sera ad Aosta. L'occasione è stata la conferenza - intitolata «Il fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo dell'indifferenza e della complicità» organizzata al teatro Saint-Martin dall'Associazione valdostana albero di Zaccheo, Libera Valle d'Aosta e Azione cattolica di Aosta. Moderata dal giornalista Daniele Mammoliti, la serata ha visto la partecipazione di molti ragazzi degli oratori dell'Immacolata e di Saint-Martin, impegnati già nel pomeriggio in attività ludico-ricreative aventi per tema la legalità.

La mafia al Nord. «Dal secondo dopoguerra Puglia, Sicilia, Calabria e Campania sono state abbandonate dallo Stato e lasciate in mano alle mafie locali, diventando un utile serbatoio di voti per i governanti di tutti questi anni. Ora però le cosche non si occupano più soltanto di traffici illeciti nei propri paesi ma prosperano al Nord grazie alla gestione di appalti e a investimenti fruttuosi. Quando però gli interessi vengono meno - ha aggiunto il fratello del magistrato - queste imprese chiudono, lasciando a casa anche persone di 50 anni. E restare disoccupati a quell'età è solo un modo diverso di morire». Ad aggravare il quadro si aggiunge, secondo Salvatore Borsellino, «l'atteggiamento di molte autorità pubbliche che nelle province settentrionali continuano a negare l'esistenza stessa di presenza malavitose. Un po' come, solo pochi decenni fa, a Palermo si dava del comunista a chi asseriva l'esistenza di Cosa nostra».

Autorità del Nord che a detta del fratello del magistrato vengono spesso smentite nei fatti: «Grazie ai filmati degli inquirenti si è scoperto che dei 304 'ndranghetisti arrestati l'estate scorsa, molti si riunivano nella provincia milanese, intorno ai tavoli di un circolo che io stesso avevo inaugurato qualche mese prima. E che era stato dedicato proprio alla memoria di Giovanni Falcone e di Paolo».

L'assenza di autodifese nel Settentrione per Salvatore Borsellino «è tale da rendere molto semplice alle cosche l'immissione sul mercato di denaro da riciclare, ben accetto soprattutto in momenti di stretta finanziaria come quello attuale».

L'agenda rossa. L'agenda di Paolo Borsellino, scomparsa dopo la strage, è diventata un emblema della lotta alla mafia e un motivo di riscatto per Salvatore: «Difficilmente l'agenda rossa ricomparirà. Ciò che mio fratello scrisse in quelle pagine è ancora oggetto di ricatti incrociati tra diverse figure istituzionali del Paese. Se venisse fuori, lo Stato dovrebbe porre se stesso sotto processo».

In merito all'attualità politica, il fratello del magistrato ha spiegato che a suo parere «lo stragismo non è un pericolo del tutto esaurito per l'Italia. Alcune parti in gioco potrebbero farvi ricorso per stabilizzare una situazione che non da' sufficienti garanzie. Come accadde nel '92».

La rabbia e la commozione. La rabbia e un po' di commozione hanno accompagnato Salvatore Borsellino durante tutta la serata. Raccontando il fratello Paolo e discutendo di legalità, pace e libertà ha invitato i giovani a impegnarsi nella vita, a studiare e a combattere ogni fenomeno assimilabile a quelli mafiosi: «Mio fratello diceva che i ragazzi posseggono ciò che noi nemmeno immaginiamo: la speranza. E che la lotta alla mafia non è repressione ma formazione culturale, che si fa nelle scuole e negli oratori. E che si vince prima di tutto dentro se stessi».

La rabbia è per un Paese «in cui non si sa più distinguere la legalità dall'illegalità, in cui si dice che Mangano è un eroe e la parola libertà, impiegata a sproposito, viene svuotata di ogni suo significato. E che sta rendendo assuefatti anche all'eventualità che su dei clandestini si possa sparare. Come se gli italiani non fossero mai stati un popolo di migranti».

La commozione, a volte non celata, è per il ricordo del fratello Paolo «che amava la vita, la sua terra, stare in mezzo ai giovani e scherzare con loro. Ma anche e soprattutto la sua famiglia: nei suoi ultimi giorni, quando capì che il proprio destino era ormai segnato, pensò di non manifestare troppo affetto nei confronti dei suoi cari. Per evitare, una volta scomparso, di mancare loro ancor di più».
 

Thierry Pronesti



Da AostaOggi.it

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