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Ingroia: "Con la mafia non si deve scendere a patti" PDF Stampa E-mail
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Scritto da Vittorio Gualtieri   
Martedì 28 Giugno 2011 17:34

 Il procuratore aggiunto all'antimafia di Palermo accolto a Pontedera da un bagno di folla venuta ad ascoltarlo nell'ambito dell'iniziativa "Yes, we care" promossa dal gruppo Agesci locale. Il magistrato: "La classe dirigente deve optare per una scelta di intransigenza etica che miri a recidere ogni legame e rapporto con la mafia, cosa che mai ha fatto in maniera decisa"

 

Alcune persone suscitano la nostra ammirazione per la loro condotta virtuosa ed esemplare. Sono persone che ci ispirano un gesto particolare, a cui corre il nostro pensiero nei momenti di crisi, che costituiscono un modello nell'esercizio della nostra professione o a cui tendiamo dopo aver definito un obiettivo. Ve ne sono altre che ci colpiscono ancora di più, oltre che per le loro qualità, per un certo pudore nel loro atteggiamento: coloro che, nonostante grandi meriti, desiderano essere trattati come persone comuni, come cittadini comuni.

Una di queste persone è Antonio Ingroia. Siciliano, procuratore aggiunto all'antimafia di Palermo, allievo di Paolo Borsellino, da circa vent'anni vive, ventiquattro ore su ventiquattro, con cinque uomini di scorta. Ha indagato con rilevanza i rapporti che intercorrono fra mafia, politica e economia. E' lui che ha condotto le indagini contro Marcello Dell'Utri, reo di esser stato un ponte fra la mafia e l'imprenditoria del nord. Ascoltarlo parlare significa assistere a lezioni magistrali di educazione civica.

Le parole che ricorrono frequentemente sono "intransigenza etica", "costruzione di senso civico", "partecipazione sociale". La sua aspirazione, dice, è stata quella di essere un "magistrato comune", o meglio, un "cittadino attivo comune".

Intervenuto venerdì scorso, 24 giugno, al Centro Sportivo Bellaria di Pontedera, invitato dai ragazzi de "Il Faro" del gruppo Agesci locale, in un'ora di conversazione con una platea numerosissima, ha ripercorso gli ultimi venti anni di lotta alla mafia offrendo contemporaneamente un suo ritratto personale.

"Il mio impegno di magistrato e cittadino - ha esordito Ingroia - è un impegno che condivido con un pezzo d'Italia: ognuno è mosso, a suo modo, da una spinta etica di rinnovamento, non intesa in senso politico, ma secondo le parole espresse da Paolo Borsellino quando disse "Io amo Palermo perché non mi piace". Io credo che anche questo significa amare: accettare qualcuno nella consapevolezza delle cose che non vanno. Altri Siciliani, altri Italiani, hanno scelto di costruirsi il futuro fuori dal nostro Paese, ed è ovviamente una scelta legittima. Altri come me, più testardi, o alcuni maestri di tenacia come Borsellino, hanno deciso di restare per condividere un impegno e una lotta: costruire una società più giusta, quella in cui desiderano vivere. La mia è la storia di un magistrato comune, un siciliano vissuto molto nella sua terra, animato dalla curiosità di guardarsi intorno e scoprire la realtà così com'è".

Un impegno per la costruzione di una società migliore che Ingroia ha maturato fin da giovane, prima attraverso la lettura di Leonardo Sciascia, poi frequentando il Centro Peppino Impastato, poi da studente, decidendo di iscriversi a giurisprudenza. Fin da giovane ha pensato che "per incidere nella realtà non bisogna vivere i luoghi subendoli ma occorre comportarsi da cittadini attivi: avere un atteggiamento che miri a mutare la realtà. La mafia non si contrasta solo con la magistratura ma con un movimento dal basso aperto e condiviso dalla società".

Dopo la laurea, Ingroia decide di entrare in magistratura: inizia un tirocinio con Falcone e poi incontra Borsellino. E' quest'ultimo che lo contagia col suo entusiasmo e lo spinge all'antimafia: intraprende le prime inchieste in forza delle quali nel 1990 gli viene assegnata la scorta. E' il periodo delle stragi degli anni 1992-'93.

"Fu per me un momento di crisi personale e professionale - ha ricordato il procuratore -. Ci fu però una reazione di indignazione comune: fummo sette magistrati che, dimettendosi, protestarono contro il procuratore capo, contro il questore e il prefetto, perché non avevano protetto come occorreva Borsellino. Nacque in quegli anni la "seconda primavera siciliana", un movimento dal basso, della società civile, che si ribellava alla mafia: fu un momento di rinnovamento che investì il Paese. Arrivò Caselli e catturammo molti boss e latitanti. Ci illudemmo di poter sconfiggere la mafia. Questo non è accaduto perché da noi c'è sempre stata una certa tolleranza della mafia da parte della classe politica e dirigente. Pezzi dell'economia e della politica hanno accettato di convivere e interagire con essa: è nata in quegli anni la mafia finanziaria che si mimetizza negli affari e nei territori dell'Italia, investendo ingenti capitali di denaro sporco, creando un'economia criminale che infetta quella legale condizionandola. Questo è accaduto col concorso della politica".

Una situazione, per Ingroia, realisticamente difficile da invertire, per mutare la quale non basta la magistratura ma occorre l'impegno della società civile: "Non bastano solo i magistrati. Occorre che l'associazionismo continui a muoversi localmente, nella dimensione cittadina, come fa "Libera". Occorre che nelle scuole, ai giovani, si parli di mafia, si insegni a intraprendere un percorso etico. Occorre non scendere a patti come fece Libero Grassi o come fa Confindustria in Sicilia che ha deciso di espellere non solo chi ha rapporti di collusione con la mafia finanziaria ma pure chi paga il pizzo. La politica deve prendere esempio dall'associazionismo e da quest'ultimo atteggiamento di Confindustria: la classe dirigente deve optare per una scelta di intransigenza etica che miri a recidere ogni legame e rapporto con la mafia, cosa che mai ha fatto in maniera decisa. Ognuno di noi, come cittadino attivo, può contribuire in questo, piccolo o grande che sia il suo apporto".

"La mafia - ha precisato Ingroia - si è mimetizzata nella società, frequenta i salotti bene. Ecco perché l'associazionismo e le istituzioni devono stare attenti, insospettirsi in situazioni di oligopolio o per grossi movimenti di capitale. Occorre che siano i cittadini a esercitare una vigilanza democratica. Potremmo pensare a dei luoghi, dei contesti, in cui favorire un rapporto di collaborazione e fiducia fra cittadini e istituzioni: questo incontro spesso ora non accade".

Nell'ultima parte del suo intervento Antonio Ingroia ha lamentato l'assenza di serie leggi che contrastino la mafia come presenza economica, la mancanza di un testo unico anti-riciclaggio, e ha inoltre espresso un giudizio estremamente negativo riguardo all'ultima proposta di decreto in materia di intercettazioni telefoniche.

Incalzato, a conclusione dell'incontro, sul senso di solitudine che può provare una persona come lui, Ingroia non ha esitato a replicare con fermezza. "Bisogna avere una tenacia straordinaria. Quella che dimostrò Borsellino dopo la strage di Capaci. Nessuno ha il diritto di mollare, di gettare la spugna. Non perché si è martiri ma perché occorre guardarsi intorno e tenere vicine le persone che ci sono solidali e continuare il percorso con loro. Ci sono sempre buoni motivi per andare avanti".

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