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Scritto da Jean Georges Almendras e Giorgio Bongiovanni   
Martedì 16 Agosto 2011 15:10

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Un crimine di Stato. Patricia Acioli, giudice che con coraggio lottava contro la criminalità organizzata infiltrata nelle fila della Polizia e delle istituzioni, in Brasile, è stata assassinata lo scorso 13 agosto. Uccisa da un commando mentre rientrava a casa, senza scorta, nonostante pesasse sulla sua testa una condanna a morte.
Come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e altri, troppi, martiri, si è battuta fino all'estremo sacrificio per affermare i valori della Verità e della Giustizia. Ostacolata dalle stesse istituzioni che avrebbero dovuto proteggerla e che invece la hanno lasciata al suo destino.
Ora le sue idee continueranno a camminare sulle gambe dei Giusti.
Giorgio Bongiovanni


Ripudiabile e ripugnante: ancora una volta il crimine organizzato ha distrutto una vita. Falciando l'esistenza di una giudice brasiliana che ha avuto la “sfacciataggine” di contrastare la mafia della polizia e degli squadroni della morte di Rio de Janeiro. Il magistrato Patricia Acioli, 47 anni, è caduta vittima di un agguato al suo arrivo a casa a Niteroi, in Brasile, come appreso dalle agenzie di stampa internazionali nelle prime ore del mattino dello scorso 13 agosto. La Acioli, che emetteva sentenze particolarmente dure contro la mafia della polizia brasiliana sarebbe stata raggiunta da 8 proiettili calibro 21 mentre rientrava a casa, a bordo della sua automobile Fiat Idea, nel barrio di Piratininga, città di Niteroi nell'area metropolitana di Rio de Janeiro.
Rientrava da un'udienza, dal Tribunale. I vertici della polizia sapevano da gennaio che la giudice era inserita in una lista di persone condannate a morte dalla mafia. Ma nonostante questo Patricia Acioli – servitrice della Giustizia brasiliana – non aveva scorta, cosa della quale i criminali erano sicuramente a conoscenza. E per questo ne hanno approfittato.
Testimoni hanno raccontato che diversi uomini armati – riparati dalle ombre della notte – hanno teso alla giovane giudice un'imboscata utilizzando due automobili e due moto. Provocandole una morte istantanea.
Appresa la notizia di questo esecrabile attentato alla democrazia e alla vita in tutto il Brasile si sono moltiplicate opinioni e riflessioni. Il governatore di Rio de Janeiro, Sergio Cabral, ha detto ad esempio che Patricia Acioli “era un giudice che emetteva coraggiose sentenze e non tollereremo questo affronto dei criminali. L'assassinio della giudice è una sfida allo stato di diritto democratico”.
Da parte sua il presidente del Tribunale di Giustizia di Rio de Janeiro, Manoel Rebelo dos Santos ha ricordato che la donna “aveva ricevuto minacce di morte”.
La stampa brasiliana ha restituito invece l'immagine di una donna separata, madre di tre figli, fidanzata con un agente di polizia e senza custodia dal 2008. Ha trasmesso inoltre che l'attentato è stato eseguito da professionisti, sicari o poliziotti attualmente in servizio, protetti dall'anonimato concesso dai cappucci utilizzati per l'agguato.
Anche il presidente dell'Ordine degli Avvocati del Brasile, di Niteroi, Antonio Barboza da Silva, non ha potuto evitare di dichiarare pubblicamente che non può passare inosservato il fatto “che il magistrato non avesse alcuna scorta, nonostante avesse giudicato centinaia di criminali altamente pericolosi. L'omicidio sembra opera della mafia”.
Con questo attentato insomma è risultato chiaro, per l'ennesima volta, e al prezzo del sangue, che il crimine organizzato in Brasile è una realtà palpabile, legata alla cultura del delitto di cui è permeata la comunità carioca.
Non è un caso che i dispacci giunti dalle agenzie di tutto il mondo hanno fornito dati sul delitto da far rabbrividire. Giornalisti della catena televisiva Globo hanno segnalato che per compiere l'attentato sono state impiegate 12 persone e che i principali sospettati sono soggetti interni ai gruppi di sterminio, detti squadroni della morte, dei quali fanno parte poliziotti che prestano servizio a privati per commettere delitti simili in città come Río de Janeiro, San Paolo, Recife, Vitória e Salvador. Violenze conosciute nel mondo intero.
Personalmente parlando, la morte della giudice Patricia Acioli richiama alla memoria gli attentati compiuti contro i giudici italiani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1992, a Palermo. Eccidi realizzati dalla mafia siciliana – Cosa Nostra – per mettere a tacere due cittadini che avevano osato affrontare l'organizzazione criminale più emblematica del pianeta. “Affronto” che allo stesso modo, 19 anni dopo, ha portato avanti la giudice brasiliana in un altro punto del mondo.
Sicilia, Brasile, il luogo non ha alcuna importanza. La cosa certa è che un altro ingranaggio della corruzione ha scatenato la propria furia contro un rappresentante della democrazia; contro un braccio della Giustizia brasiliana.
Patricia Acioli, in meno di un anno, ha fatto arrestare la bellezza di 60 poliziotti legati agli squadroni della morte. E a questo dato se ne aggiunge un altro, non meno significativo: nel mese di settembre del 2010 furono condannati all'ergastolo quattro poliziotti di Rio de Janeiro accusati di aver commesso 11 delitti su commissione. Non per caso, e sicuramente in conseguenza di queste sentenze esemplari, il nome del magistrato Acioli fu segnato nella lista nera stilata dalla “mafia policial”. Che prospera nell'indifferenza e nell'assenza di fiducia dei giovani verso le istituzioni, laddove non c'è alcuna possibilità di istruzione e di futuro. Quei giovani che diventano vivaio per i gruppi criminali. Gruppi criminali che in Brasile, dopo l'assassinio del magistrato, hanno potuto contare su portavoce che hanno avuto la sfrontatezza di giustificare l'attentato. Come il deputato di Rio de Janeiro Flavio Bolsonaro, del Partito Progressista, figlio del militare in pensione Jair Bolsonaro (deputato federale e tra le principali voci politiche a rivendicare la bontà della dittatura militare e a rifiutare le politiche della comunità omosessuale) che osò dire pubblicamente: “Che Dio accolga la giudice, anche se il metodo assurdo e gratuito con cui lei umiliava in aula uomini della polizia ha contribuito a farle avere dei nemici. Aveva molti nemici, ma non per l'esercizio della sua professione, solo perché umiliava gratuitamente gli imputati. Ho ricevuto nel mio ufficio diversi poliziotti assolti che si lamentavano perché lei li definiva malviventi o reietti”.
Le solite barriere del male mafioso che si ergono, in qualsiasi Paese del mondo, per coprire crimini e misfatti e proteggerli con il manto dell'impunità.
Perché una giudice così severa contro il crimine organizzato non aveva una scorta?
Perché, ancora una volta, abbiamo permesso alle fauci della mafia di aprirsi per divorare un rappresentante della Giustizia riaprendo vecchie ferite, vecchi dolori nei Paesi in cui a parole si vorrebbe combattere la corruzione?
Perché questo fenomeno dilaga sempre più e non riusciamo ad imparare dagli errori del passato. Quando, ad esempio, in Sicilia, negli anni della lotta frontale contro Cosa Nostra venivano assassinati magistrati, giudici, giornalisti, intellettuali, sacerdoti e innocenti nella città di Palermo. O quando anni addietro altrettanti magistrati venivano uccisi dai narcos colombiani.
Le tentazioni del potere e del denaro facile hanno aggredito i meccanismi della democrazia, logorando dall'interno anche le forze dell'ordine che dovrebbero essere preposte a garantire la legalità e la sicurezza. E anche per questo la criminalità organizzata si muove con rapidità e rafforza sempre più la sua presenza in ogni parte del mondo. Lo sa molto bene il Brasile, con le sue favelas infestate di narcotrafficanti; lo sa il Messico, con le migliaia di morti causate dagli attacchi dei narcos e dei gruppi paramilitari che schiacciano giovani vite, come il figlio 24enne del poeta Javier Sicilia; lo sa la Repubblica di Costa Rica, teatro del recente assassinio del cantautore argentino Facundo Cabral, vittima della violenza imperante in quello Stato; lo sanno tutti i Paesi in cui la classe politica non ha impedito che il potere della corruzione si infiltrasse tra le fila delle classi dirigenti. Per citare un solo esempio basta guardare quando sta accadendo in Italia con Silvio Berlusconi. E di fronte a questo dilagante fenomeno è necessario sottolineare l'importanza fondamentale della denuncia, che aiuta a raggiungere la verità. Quella denuncia che è responsabilità di ognuno di noi, di ogni cittadino. Quel lavoro di denuncia che possiamo svolgere noi giornalisti o la denuncia gridata del poeta Javier Sicilia in Messico, che ha organizzato una vera e propria mobilitazione, il movimento di Cuernavaca, e dialogato con il presidente Calderòn. O, ancora, la denuncia della giudice brasiliana Patricia Acioli, che ha dedicato la propria vita per la nobile causa di affermare la verità, di dirla e di farla conoscere. Lo faceva con le sue indagini e con le sue sentenze che hanno contribuito a disarticolare un'organizzazione mafiosa nella sua terra natìa. Fare questo le è costato la vita. E a noi ha lasciato, una volta di più, un amaro sapore in bocca e la voglia di gridare forte che le idee della giudice Patricia Acioli cammineranno sulle nostre gambe.
A questa donna valorosa vada il nostro omaggio perché a noi ha lasciato un grande insegnamento: la lotta che ha portato avanti ogni giorno della sua vita, mossa dalla sua forza, dai suoi valori etici. E' per questo che il suo sangue, versato sulle strade della sua cara Rio de Janeiro, è anche il nostro.

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