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Scritto da Giambattista Scidà   
Mercoledì 17 Agosto 2011 11:58

É morto alcuni giorni fa di morte naturale, nel Nicaragua: 23 anni dopo Rostagno, che morì di morte violenta alle soglie della SAMAN, e ancora non è stato accertato chi ne volle la fine e perché. Non avrei mai incontrato Cardella né a me sarebbe accaduto di contrastarne l’impresa maggiore senza i fatti che qui riassumo. 

 

I

 

Nel 1982 il potere su Catania fu gravemente minacciato, sia dall’interno della città che da fuori. Giuseppe D’Urso mise in moto una formidabile protesta contro il torbido appalto per la costruzione, in via Crispi, di una sede per la Pretura, e l’intervista bomba di Dalla Chiesa (La Repubblica del 10 agosto) svelò al Paese le verità catanesi più accuratamente nascoste. Il sistema sormontò entrambe quelle minacce. Dalla Chiesa cadde 24 giorni dopo, a Palermo, a due passi dalla sua Prefettura, e al posto del Prefetto nemico che egli era – ma Prefetto di Palermo, senza altri poteri – i grandi di Catania ebbero un Alto Commissario antimafia con poteri su tutta l’isola, che era stato Questore a Catania, mai dubbioso della loro ineccepibilità. Quanto all’appalto, la Giustizia non si mosse; non si mosse la Procura e neanche vollero muoversi i Pretori, homines novi nei quali era stata riposta da moltissimi cittadini una grande speranza di progressivo rinnovamento della giustizia inquirente.

Fui tra coloro che più soffrirono di quegli esiti. Ancora parecchi anni dopo, a Samarcanda, dicevo alto il mio convincimento, che la strage di via Carini era stato un delitto catanese. Quanto ai Pretori, pur salvando i rapporti personali con loro non nascosi la mia disapprovazione per quella scelta. Essa fondava, per i successivi decenni, il regime materiale della città. Qui non sarebbe corso sangue di magistrati; a morire di piombo sarebbe stato Giuseppe Fava.

L’anno appresso non mi fu benigno. A Pasqua era già in corso il primo tentativo di espungermi da Catania. E presto ebbi bisogno di ripetuti ricoveri in ospedale, uno dei quali volli interrompere per potere scongiurare la locazione d’oro, a spese del Ministero, che si disegnava per fornire di nuova sede gli Uffici giudiziari minorili. Tra una degenza e l’altra, non mancai di puntualmente recarmi a Palermo di primo pomeriggio – quasi in continuazione del servizio prestato in Tribunale – perché al Comitato Regionale per le tossicodipendenze non mancasse il numero legale

Sapevo, ogni volta, che durante il ritorno, con la stessa SAIS, a sera, una misteriosa febbre si sarebbe impadronita di me, al modo della melitense, per lasciarmi soltanto al mattino, nel letto pregno di sudore. Ma non ebbi mai bisogno di un taxi per rincasare. Dalla scaletta del pullman, le gambe già grevi, vedevo di fronte, le spalle contro il muro, come un telamone, e la testa più alta che le teste dei passanti, un certo segretario giudiziario del TpM, possessore di automobile: sempre al corrente, per non so quali sue vie, dell’ora del mio rientro. Era il mio più stretto collaboratore, instancabile e pacato, nella fatica quotidiana.

Quando fu all’odg un’istanza di contributo, di una comunità asseritamente attiva da due anni in Distretto di Catania – ma nessuna notizia me ne era mai giunta – proposi un accesso. Trovammo un campo da molti anni in abbandono, coperte di rovi le sole costruzioni realmente esistenti, forse servite di ricovero per attrezzi.

L’accaduto si attaccò al mio oscuro cognome. La Regione avendo istituito una sua Consulta per le tossicodipendenze (trenta membri, nessuno dei quali di diritto; Presidente l’Assessore alla Sanità; lauto gettone di presenza, sia per il plenum che per le Commissioni; improbabile ormai che mancasse il numero) l’Assessore (un socialista di buone lettere e di tratto distinto), mi interpellò per telefono. In verità era difficile pretermettere me, pur mentre venivano inclusi altri magistrati, uno dei quali di Catania, e anche il gestore di quella tale comunità, senza dare l’impressione mi si volesse punire. Accettai.

Ebbi il trattamento più riguardoso. Sedevo accanto al Presidente, alla prima riunione, quando venne all’esame, come primo argomento, l’istanza di iscrizione all’Albo degli Enti ausiliari, dell’associazione SAMAN, con sede in Valderice. Non ci fu dissenso circa l’opportunità di un’ispezione. Andammo in cinque: con me, un altro magistrato, di Messina, il Prefetto di quella Provincia e due funzionari della Regione. Tornammo divisi. Io avrei riferito per la maggioranza, contraria all’iscrizione; l’altro magistrato, di opposto avviso, per sé.

 

 

II

 

La SAMAN era Francesco Cardella. Cardella era tutto. La sua immagine incombeva, ossessivamente ricorrente, da tutte le pareti. Rostagno non era che un utile gregario. Non aveva potuto proteggere dal potere del guru neanche la propria vita privata. Aveva dovuto lasciare il centrale, lussuoso alloggio di dirigente, suo sinché integra quella sua vita, per un tetto al margine del recinto. Mentre i due funzionari, straordinarie figure di servitori dell’interesse pubblico, si dedicavano all’esame della documentazione, volli muovermi per il vasto spazio – cinque ettari, credo – sul quale insistevano gli edifici, quasi tutti evidentemente abusivi, per la loro stessa struttura. Si udivano ogni tanto grida disperate: la comunità ospitava, insieme con tossicodipendenti, psicotici. Entro un locale era “la macchina per la serenità”: un vascone pieno d’acqua fortemente salata, sulla quale un corpo potesse stare a galla. Il fondo, proprietà del Cardella, era stato messo a disposizione del sodalizio con una scrittura privata, in carta legale, dalla data incontestabilmente mendace perché anteriore di parecchi anni all’anno di fabbricazione del foglio, leggibile in filigrana. E certi tratti del suo passato erano lontani dal raccomandarlo: il tempo trascorso a Milano, prima della SAMAN, e l’attività ivi svolta nell’area della stampa pornografica.

Ma Cardella era appoggiato da tutti i partiti politici, e dai gestori di comunità. Particolarmente impegnato nel sostenerlo era il partito socialista, allora all’apice del potere: deteneva la Presidenza del Consiglio; aveva il Ministero della Giustizia; aveva, a Catania, una presenza molto forte. Cardella era stato in India, per alcuni anni, presso il fratello di Bettino Craxi, Antonio, e a Milano aveva potuto allargare e approfondire i suoi rapporti con quell’area politica. Era da escludere che la Consulta ne respingesse le istanze, senza repentaglio per il vertice dell’Assessorato.

 

 

III

 

Il 30 gennaio del 1986 la seduta avrebbe avuto inizio prima se il Presidente non fosse stato chiamato, et pour cause, da Palazzo Chigi. Il magistrato di Messina propose iscrizione, con accompagno di condizioni, del cui rispetto non c’era garanzia. I contrari all’iscrizione (Scidà, i due funzionari, il Col. Colossa) fummo sommersi dai voti favorevoli. Le astensioni furono quattro. Io ero stato sgradevolmente interrotto dal Presidente, mentre riferivo. Non fui presente alla seduta del pomeriggio; sì a quella del giorno dopo, all’inizio della quale dichiarai che non intendevo fare ancor parte della Consulta, a causa del voto del giorno prima e del comportamento dell’Assessore. Si alzarono tutti nel tentativo, vano, di trattenermi. Seguì un lungo tempo di inattività dell’organo. Mesi dopo, un messaggio mal scritto dell’Assessore mi esortò a rientrare . Rientrai, ma per chiedere riesame del deliberato. Il Presidente – correttissimo, ora, sul piano formale – fu netto nel no. Era il 7 maggio 1986; non ricomparvi che due anni dopo, quando altra persona fu subentrata all’Assessore. Intanto, altri mutamenti erano intervenuti. La SAMAN si era rivelata; l’insofferenza aveva raggiunto, in numerosi componenti, livelli alti. Ne fu respinta un’istanza, in Commissione; e in quella stessa sede il Prefetto di Palermo, Finocchiaro, ed io, chiedemmo, con altri, che all’odg del plenum fosse iscritta, per la prima seduta, revoca della delibera di iscrizione nell’Albo.

 

 

IV

 

Nella riunione plenaria del 24 marzo 1988, la discussione fu amplissima. Io presentai motivata proposta di cancellazione. Uno dei componenti, uno solo, votò contro; otto i voti favorevoli, compreso il mio; sette gli astenuti. La cancellazione era deliberata.

Ma il TAR annullò la delibera. Non ho a portata di mano la motivazione: la maggioranza doveva esser calcolata non sui presenti, ma sul numero dei componenti? o le astensioni dovevano esser tenute in conto di voti contrari? la SAMAN poté continuare ad espandersi. Diventò un impero. Nessuno ne ha visto i conti.

 

 

V

 

Non ho da fare processi alle astensioni; ma certo corrispondeva ad una strategia quel rivestire i no di ni. Per me non era più il caso di sottrarre il tempo a Catania per spenderlo nella Consulta. Volli uscirne, infatti, per sempre.

 

 

VI

 

Non so collocare nel tempo, con precisione, l’inchiesta per un affare di droga, grosso, all’interno della SAMAN: intrapresa dalla Procura della Repubblica di Trapani, e sottaciuta da tutta la stampa. Intanto Rostagno era rinato. Parlava da una radio di Trapani, contro la mafia. Fu freddato la sera del 26 settembre 1988 davanti al cancello della comunità. La giustizia non poté avanzare lungo piste interne. Pannella venne a tenere un comizio a Trapani: gridò di volere la verità su quell’omicidio; aspettava di conoscerla anche da lettere anonime. Non sono mai stato richiesto di informazioni. Il Procuratore Capo di Trapani era in procinto di venire a Catania quando l’indagine che aveva iniziato fu repentinamente chiusa.

Cardella, non più inseguito da sospetti di concorso in quell’omicidio, è morto mentre a Trapani è in corso un processo, a carico di mafiosi, davanti alla Corte d’Assise di 1°grado, a distanza di quasi un quarto di secolo dal fatto.

Giambattista scidà

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