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In ricordo di Vito Jevolella PDF Stampa E-mail
Documenti - Per non dimenticare
Scritto da Serena Verrecchia   
Sabato 10 Settembre 2011 17:05
"Addetto a nucleo operativo di Gruppo, pur consapevole dei pericoli cui si esponeva, si impegnava con infaticabile slancio ed assoluta dedizione al dovere in prolungate e difficili indagini - rese ancora più ardue dall'ambiente caratterizzato da tradizionale omertà - che portavano alla individuazione e all'arresto di numerosi e pericolosi aderenti ad organizzazioni mafiose. Proditoriamente fatto segno a colpi d'arma da fuoco in un vile agguato tesogli da quattro malfattori, immolava la vita ai più nobili ideali di giustizia e di grande eroismo"

Con queste parole fu assegnata la medaglia d'oro al valore civile al sottuficiale dei Carabinieri Vito Jevolella. A ritirarla, furono, come accade sempre in questi casi, i parenti. E' questo che rimane loro dei propri famigliari uccisi dalla criminalità organizzata: il ricordo di tempi felici e una medaglia d'oro che mai nessuno potrà più indossare.
Vito Jevolella aveva cinquantadue anni quando fu ammazzato e ben trentatrè di esperienza tra i ranghi dell'Arma dei Carabinieri. Nacque a Benevento nel dicembre del 1929 e, all'età di diciannove anni, si arruolò e fu spedito a prestare servizio presso le caserme di Alessandria e Firenze.
Con l'intenzione di schierarsi in prima linea contro la criminalità organizzata, chiese ed ottenne il trasferimento per la Sicilia, così, all'inizio degli anni Sessanta, intraprese la sua battaglia a Palermo. Lavorò al fianco del colonnello Giuseppe Russo, ucciso anch'egli dalla mafia nell'agosto del'77, occupandosi principalmente di delitti di stampo mafioso.
Trasferito alla caserma "Carini", coordinò le attività del reparto "Delitti contro il patrimonio" del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo.
Vito Jevolella era un grande carabiniere. Coraggioso, ostinato e determinato, portava avanti il suo lavoro con eccezionale professionalità, tanto da essere ricompensato da ben sette encomi solenni e ventisette apprezzamenti del Comandante generale dell'Arma.
Fu un antesignano delle moderne tecniche investigative antimafia e il suo contributo alla lotta a Cosa nostra è tra i più lodevoli ed irreprensibili.
Dopo l'assassinio del colonello Russo, sebbene avesse capito che i suoi nemici facevano sul serio e che non lo avrebbero lasciato vivere più del suo comandante, non si prostrò e non si tirò indietro. Il suo animo era troppo fermo e deciso per poter essere svilito, per questo continuò a lavorare con la stessa costanza e assiduità di prima, ancora più deciso a sventrare quella metastasi che soffocava le libertà di un intero Paese.
Tra l'80 e l'81, redasse un rapporto sulla criminalità organizzata del Palermitano, andando a ricostruire vincoli associativi tra soggetti denunciati e minando affari e interessi delle cosche. Soprattutto, egli intuì che dietro il contrabbando di sigarette, il traffico di droga e alcuni omicidi all'apparenza inspiegabili, c'era Cosa nostra con Tommaso Spadaro.
Piovvero le minacce e le intimidazioni. Vito Jevolella viveva e operava in un clima di isolamento assoluto, tra l'indifferenza della società civile alle battaglie contro la criminalità organizzata e l'assenza di supporti da parte dello Stato. Era già stato ucciso il colonnello Russo e lui si era esposto più del dovuto. Erano stati assassinati il procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, il dirigente della Squadra mobile Boris Giuliano e il giudice Cesare Terranova.
Era un bersaglio facile per le pallottole di Cosa nostra.
Gli fu affidata una scorta, che, in effetti, lo scortò per poco tempo. Qualche mese prima di morire, Vito Jevolella fu ricoverato per un sospetto tumore allo stomaco. Appresa la notizia, tra le sbarre dell'Ucciardone festeggiarono con lo spumante, ma lui fu presto dimesso. Stavolta però, non c'era la scorta ad aspettarlo fuori dall'ospedale, sotto casa, in caserma, accanto alla sua auto. Forse dandolo già per morto, gli avevano revocato la protezione, abbandonandolo al proprio destino.
Spadaro e i suoi, invece, lo consideravano ancora un peso e ne decretarono la fine. La sera del 10 settembre del 1981, Vito Jevolella era in macchina con sua moglie e stava aspettando la figlia Lucia, che frequentava un corso di scuola guida per prendere la patente. I sicari di Spadaro lo raggiunsero e lo uccisero con sei colpi d'arma da fuoco.
Grazie alle collaborazioni di Salvatore Cancemi, Salvatore Cucuzza, Antonio Marchese (accusatisi del delitto) e di Pasquale Di Filippo, un verdetto definitivo ha accertato che Tommaso Spadaro fu il mandante e Giuseppe Lucchese uno degli esecutori materiali.
Resta solo il ricordo di un grande Carabiniere a riempire le pagine della memoria dei martiri di Giustizia.

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