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Le involontarie confessioni del magistrato Olindo Canali a uno stralunato Bruno Tinti PDF Stampa E-mail
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Scritto da Sonia Alfano   
Giovedì 06 Ottobre 2011 21:37

Mentre il governo si appresta a varare un provvedimento “contro” le intercettazioni e la loro pubblicazione, io continuo a diffondere il contenuto delle conversazioni che il magistrato Olindo Canali ha tenuto al telefono con la pletora di personaggi che ha costituito (e costituisce) il suo “network difensivo” e anche con qualcuno estraneo ai suoi intrallazzi ma un po’ ingenuo nell’offrirgli la propria fiducia. Proprio a quest’ultima categoria appartiene un personaggio noto al grande pubblico, l’ex magistrato e giornalista Bruno Tinti. Del resto, come ricordavo in uno dei miei ultimi post sull’argomento, proprio Tinti, durante uno dei più importanti dibattiti della festa Idv di Vasto, ha ricordato l’importanza dello strumento investigativo e il diritto/dovere di pubblicarne i contenuti. Quindi, so già di avere il consenso di Tinti a questa pubblicazione.

Il 21 giugno 2009 alle 11,52 del mattino, Olindo Canali chiama Bruno Tinti, e scopre che il suo amico è terribilmente preoccupato da quanto scrittogli su di lui dal magistrato catanese Felice Lima a proposito di un documento anonimo venuto fuori durante il giudizio d’appello del maxiprocesso alla mafia barcellonese, “Mare Nostrum”.
 

In quel documento, scritto e diffuso dallo stesso Canali nel gennaio 2006 in un momento in cui credeva che a breve sarebbe stato arrestato (evidentemente era conscio di sè!), il magistrato brianzolo aveva messo in dubbio la responsabilità del boss barcellonese Giuseppe Gullotti per l’omicidio mafioso di mio padre, il cronista Beppe Alfano. Durante il processo per quel delitto, Canali aveva sostenuto l’accusa fino alla sentenza di primo grado, e Gullotti era stato assolto. In appello, invece, il boss era stato condannato a trent’anni: non all’ergastolo, unicamente perché Canali aveva “dimenticato” di contestare l’aggravante della premeditazione.

L’ex sostituto procuratore di Barcellona, come si evince dal contenuto dell’intercettazione, è ora oggetto delle ansie di un affettuoso Bruno Tinti, perchè accusato di avere accuratamente occultato, durante il processo per l’omicidio Alfano, la latitanza barcellonese di Nitto Santapaola, della quale mio padre gli aveva limpidamente parlato poco prima di essere ucciso.

Canali dice a Tinti pure che, secondo i suoi accusatori (cioè primi fra tutti io e il mio avvocato, Fabio Repici), inoltre, egli sarebbe stato nel 1992 inviato in provincia di Messina dal magistrato di origini barcellonesi Francesco Di Maggio (negli anni Ottanta in servizio alla Procura di Milano, dove per anni insabbiò il fascicolo sulle infiltrazioni mafiose all’autoparco di via Salomone) per proteggere quello che oggi viene riconosciuto come il capo dei capi della mafia del Longano: Rosario Pio Cattafi, già noto alle cronache per le sue vicissitudini giudiziarie (tra l’altro, arrestato nell’indagine riaperta a Firenze sull’Autoparco milanese, seppure alla fine assolto per ragioni procedurali che resero inutilizzabili le intercettazioni che lo avevano inchiodato in una prima sentenza di condanna). Tinti gli chiede su quali elementi è fondata questa accusa, e Canali, che pure ammette che Beppe Alfano lo aveva esplicitamente informato sul covo del latitante Santapaola e che lui aveva girato la notizia a Di Maggio, dice che è fondata sul nulla. In verità, omette di riferire all’amico dei legami fra Di Maggio e Cattafi (risultanti chiaramente nell’informativa del Gico di Firenze del 3 aprile 1996), e non gli racconta neanche che nei suoi stessi scritti e nei suoi stessi interrogatori lo stesso Canali aveva ammesso di aver puntualmente avvisato Di Maggio degli sviluppi delle proprie indagini. Inutile dire che Canali evita di informare Tinti anche del fatto che Di Maggio è l’insabbiatore dell’indagine sull’autoparco di Milano e l‘uomo della trattativa sul 41bis nel 1993.

Da non perdere il passaggio durante il quale Canali tenta di spiegare al suo ex collega chi è Francesco Di Maggio. Tinti non capisce e ne nasce un dialogo degno dei fratelli Marx, esilarante fino alle lacrime, fra Tinti che crede si tratti di un capomafia e Canali che cerca di ricordargli che invece è un ex collega, precocemente defunto (Tinti erroneamente ricorda del suo omicidio; ma la morte di Di Maggio avvenne per epatite fulminante a seguito di cirrosi epatica, nell’ottobre 1996), e naturalmente da lui molto stimato. Anche perché nel 1985, quando Di Maggio insabbiava i fascicoli su Cattafi a Milano, suo giovane uditore era (guarda che combinazione!) proprio Olindo Canali.

Non soddisfatto di quanto riferito telefonicamente da Canali, Bruno Tinti gli chiede di avere un documento scritto, come una requisitoria. Solo così potrà comprendere. Sennonché, in quel momento Canali si trova già indagato per falsa testimonianza con l’aggravante mafiosa dalla Procura di Reggio Calabria in relazione a due memoriali scritti tre anni prima: ed ecco che Tinti gli chiede di spiegargli tutto con “un memoriale”. Come parlare di corda in casa dell’impiccato!

Per finire, una bizzarra “curiosità”: Canali dice a Tinti che nel 1992 si era trasferito dalla Procura di Monza a Barcellona Pozzo di Gotto perché era andato in frantumi il suo matrimonio. Però dimentica che nel novembre 1994 aveva rilasciato un’intervista a Felice Cavallaro, per il settimanale Sette, supplemento del Corriere della Sera: lì si raccontava che il magistrato brianzolo teneva la foto della moglie sul tavolo e che appena poteva tornava a Monza. Quell’articolo di Cavallaro è un cimelio giornalistico indimenticabile: osservate il servizio fotografico che fa da corredo, con lo squallido magistrato in posa per scatti fintamente a sorpresa, con tanto di pistola a tavola e perfino con un povero pastore tedesco costretto alla posa in una stanza da letto più simile a una topaia.  Una prece.


Sonia Alfano (www.soniaalfano.it, 6 ottobre 2011)






 

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