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Scritto da Lirio Abbate   
Sabato 22 Ottobre 2011 08:51
Un nuovo pentito accusa Saverio Romano: lo conosco bene, Provenzano ci ha ordinato di farlo eleggere in Parlamento. E la procura di Palermo scrive: "Si è messo a disposizione per aiutare Cosa nostra. Intascando mezzo milione di euro"

Bernardo Provenzano
è uno che sulla politica ha sempre avuto la vista lunga, scegliendo i giovani su cui puntare, quelli destinati ad andare lontano. E la sua attenzione sarebbe stata catturata da un rampollo democristiano, un ragazzo sveglio che non disdegnava i contatti con gli amici degli amici. E' così che secondo i nuovi verbali raccolti dagli investigatori il padrino corleonese nel 2001 avrebbe investito sulla carriera di un parlamentare particolarmente promettente: Saverio Romano. Una nuova accusa contro l'onorevole che nello scorso dicembre ha lasciato l'Udc garantendo la sopravvivenza del governo di Silvio Berlusconi e ottenendo poi la poltrona di ministro dell'Agricoltura.

Pochi giorni fa, le prime intercettazioni trasmesse dalla procura di Palermo alla Camera hanno spinto Gianfranco Fini a chiederne le dimissioni, innescando uno scontro con il segretario del Pdl Angelino Alfano. Ma adesso "l'Espresso" è in grado di rivelare tutti gli elementi raccolti dagli investigatori nei confronti dell'esponente siciliano dei Responsabili. A partire dalle dichiarazioni inedite di un collaboratore di giustizia considerato di primo piano dagli inquirenti: Giacomo Greco.

Non è un mafioso qualsiasi, perché arriva da una famiglia che per decenni è stata al fianco di Provenzano. E conosce Romano da sempre perché sono cresciuti nello stesso paese, a Belmonte Mezzagno, piccolo centro a 24 chilometri da Palermo, con una forte presenza mafiosa. Nel 1997 i carabinieri li fermarono insieme durante un controllo di ruotine: con loro c'era un'altra persona, poi assassinata. Ma soprattutto il pentito è il genero del boss Ciccio Pastoia che per decenni curò gli interessi economici e la latitanza del vecchio padrino di Corleone. Nel 2004 Pastoia fu intercettato da una microspia mentre confidava i segreti del sistema di potere di Provenzano, svelando mandanti ed esecutori di diversi omicidi. Fu arrestato e in carcere si suicidò per avere disonorato la sua famiglia. Ma i mafiosi non giudicarono la sua morte sufficiente a lavare l'onta: bruciarono il loculo con la sua bara.

Oggi i verbali di Greco sull'appoggio di Provenzano per il futuro ministro sono importanti perché confermano il contesto delle altre accuse, quelle per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione "aggravata dall'avere avvantaggiato" Cosa nostra. Due procedimenti distinti, per i quali il parlamentare era già indagato prima della nomina a ministro. Le ipotesi di reato sono gravissime. Il parlamentare avrebbe incassato tangenti per circa 500 mila euro per favorire una società in cui avevano interessi Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. E per questo motivo gli inquirenti ritengono che Romano facesse parte di un "comitato d'affari" dove si "collegano le condotte di imprenditori spregiudicati, liberi professionisti a libro paga, amministratori corrotti, politici senza scrupoli votati ad una "raccolta del consenso" senza regole".

Ma la storia, stando al racconto di Giacomo Greco ai pm di Palermo, comincia con le elezioni del 2001, quando la famiglia dei Mandalà di Villabate, che gestiva la latitanza di Provenzano, e quella di Ciccio Pastoia "si interessarono per far votare Saverio Romano". Il pentito spiega che all'epoca venne a conoscenza di queste direttive dei boss "perché direttamente informato da Ciccio Pastoia e dai suoi figli". Mafia e politica si intrecciano ancora una volta: dieci anni fa, secondo Greco, c'era la "necessità" di portare Saverio Romano in Parlamento. Per farlo eleggere tutto il clan si sarebbe mobilitato. Evitando passi falsi: per non "bruciare" il candidato, Ciccio Pastoia evitò di farsi vedere in pubblico insieme a Romano, ma come rivela il pentito, i due si conoscevano bene e l'uomo di fiducia di Provenzano teneva i suoi rapporti con il futuro ministro attraverso Nicola Mandalà, il mafioso che per due volte accompagnò Provenzano in una clinica a Marsiglia.

"Sia Ciccio Pastoia che i suoi figli Giovanni e Pietro affermarono che su Romano c'era anche l'interesse dello "zio" e cioè di Bernardo Provenzano", spiega il collaboratore di giustizia. Ma nel 2003 le cose cambiano. I carabinieri del Ros cominciano a concentrarsi su Belmonte Mezzagno, piazzando microspie e telecamere nascoste: lo stesso Romano finisce sotto inchiesta assieme a Totò Cuffaro. E i boss sostengono di venire delusi da lui, perché non mantiene più le promesse. "Nel 2004 Ciccio Pastoia mi incaricò di organizzare ed eseguire un attentato incendiario in danno dell'abitazione del padre dell'onorevole Romano. Mi disse che Nicola Mandalà ce l'aveva con Romano perché non aveva mantenuto gli impegni precedentemente assunti". L'intimidazione non venne portata a termine perché il controspionaggio dei mafiosi, come spiega Greco, aveva individuato le indagini segrete del Ros: c'era il rischio di finire nel mirino delle telecamere piazzate nel paese.

Giacomo Greco è il quarto pentito a parlare del ministro, dopo Francesco Campanella, Angelo Siino e Stefano Lo Verso. E anche le sue deposizioni hanno pesato nella decisione dei pm di Palermo di cambiare linea nei confronti di Romano. Nei mesi scorsi la procura aveva chiesto per due volte l'archiviazione delle accuse di mafia, pur sostenendo la "contiguità" del ministro con gli ambienti mafiosi. Il gip ha respinto e alla fine ha imposto l'imputazione. E oggi i pubblici ministeri sono convinti che il parlamentare abbia "consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, mettendo a disposizione il proprio ruolo così contribuendo alla realizzazione del programma criminoso dell'organizzazione, tendente all'acquisizione di poteri di influenza sull'operato di organismi politici e amministrativi".

Quanto alla corruzione, secondo i pm le prove sono in 25 conversazioni registrate dai carabinieri di Monreale tra luglio 2003 e settembre 2004. Al centro c'è il Gruppo Gas, una holding energetica "made in Corleone" controllata da Provenzano e Ciancimino. Le intercettazioni sono state inoltrate dal gip Piergiorgio Morosini alla Camera con la richiesta di utilizzazione. I consulenti della procura (Elio Collovà e Salvo Marino) hanno evidenziato in una relazione consegnata ai pm "l'importanza dell'appoggio offerto dai politici al Gruppo Gas nel "controllo occulto" delle procedure relative alla installazione degli impianti di metanizzazione in diversi comuni della Sicilia; procedure connotate da gravi irregolarità amministrativo-contabili funzionali all'aggiudicazione "preferenziale" dei lavori". Il collegamento fra Romano e la società di Ciancimino-Provenzano è rappresentato dal professore Gianni Lapis, indicato come l'uomo di fiducia di "don" Vito Ciancimino e la mente economico-politica del figlio Massimo Ciancimino. Lapis è stato condannato in Cassazione per tentata estorsione mentre ha ottenuto la prescrizione per avere fatto da prestanome a Ciancimino.

Dalle conversazioni di Romano depositate alla Camera emerge il collegamento fra Lapis, il gruppo dell'Udc in Sicilia e le somme che avrebbe incassato. Un pagamento che mette l'attuale ministro "a disposizione" del clan Ciancimino. Ai politici Ciancimino versò in un solo anno un milione 330 mila euro. Gli investigatori sottolineano che è "emblematico" quanto accadde il 3 divembre 2003 quando Lapis chiamò Romano che si trovava nell'aula del Parlamento per chiedergli due favori: inserire un emendamento nella legge finanziaria e ottenere un'udienza al ministero delle Attività produttive, "con l'intima consapevolezza che Romano non avrebbe potuto negarglieli, vista la somma di denaro che attendeva da Lapis". Per poter agevolmente acquistare metano dalla Russia e essere autorizzato a rivenderlo in Italia, Lapis aveva la necessità che fosse presentato un emendamento alla Finanziaria.

Le intercettazioni rivelano che il professore dopo aver assicurato Romano che il giorno dopo si sarebbero visti "per definire la transazione economica promessa", gli chiede di intervenire in modo da far integrare l'emendamento a proprio vantaggio. E Romano "si mise immediatamente a disposizione", invitandolo a inviargli un fax con la stesura del testo da presentare. Gli investigatori evidenziano che "due giorni dopo la vendita del gruppo Gas che permise al professore Lapis di avere una disponibilità economica di circa 20 milioni di euro, i politici dell'Udc (oltre a Romano, Salvatore Cuffaro e Salvatore Cintola) si sono prodigati per agevolare Lapis". Per questo motivo il giudice sostiene che Romano farebbe parte di un "comitato d'affari": "I politici gestiscono il flusso della spesa pubblica e le autorizzazioni amministrative; gli imprenditori si occupano della gestione dell'accesso al mercato; i mafiosi riciclano capitali, partecipano agli affari e mettono a disposizione la forza materiale per rimuovere gli ostacoli che non è possibile rimuovere con metodi legali". Al ministro viene contestato che "nello svolgimento delle sue funzioni pubbliche si sarebbe messo al servizio degli interessi" delle holding di Ciancimino-Provenzano.

Per i favori concessi Romano avrebbe ricevuto in tre tranche somme in contanti per circa 500 mila euro. Le conversazioni telefoniche evidenziano un "rapporto di stabile disponibilità" del ministro in favore della società energetica che stava a cuore a Provenzano. Per l'uomo dell'Udc e oggi leader dei Responsabili, il professore Lapis era diventato una fonte di approvigionamento dal quale non avrebbe voluto più staccarsi. Tanto che dopo il terzo versamento in contanti, Romano continua a chiamare Lapis, da come emerge dalle intercettazioni depositate alla Camera. Il 22 marzo 2004 il deputato telefona per la terza volta, nell'arco di poche ore. Lapis risponde un po' infastidito e gli dice di non avere novità e che presto gli avrebbe fatto sapere. "Non abbiamo novità per quelle cose... perché io non ci sono stato e debbo provvedere ancora, va bene?". Romano risponde: "Mi fai sapere tu allora". Lapis chiude la telefonata, annuisce, ma non si ribella. Perché pagando Romano gli si erano aperte molte porte.


Lirio Abbate (L'Espresso, 19 ottobre 2011)



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