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'Così la cricca delle toghe insabbia le inchieste' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Gianni Barbacetto   
Martedì 01 Novembre 2011 14:58
Il giudice Iannuzzi: la lotta di potere dietro la guerra tra magistrati

Censurato dal Consiglio superiore della magistratura: per aver inserito alcune espressioni critiche in un provvedimento del novembre 2005 che rigettava alcune richieste d’arresto e per aver dissentito dalle valutazioni espresse dal tribunale del riesame. L’allora giudice per le indagini preliminari di Potenza Alberto Iannuzzi (oggi giudice presso la Corte d’appello di quella città - nella foto, ndr) ha incassato in silenzio la sentenza della sezione disciplinare del Csm, poi resa definitiva dalle sezioni civili unite della Cassazione. Iannuzzi è stato il gip che ha confermato prima le richieste del pm Henry John Woodcock (“Vallettopoli”) e che ha poi corroborato con le sue dichiarazioni le indagini di Luigi De Magistris (“Toghe lucane”). Ora assiste al disvelamento dei comportamenti infedeli di altri magistrati, dalla conduzione delle indagini sulla scomparsa di Elisa Claps da parte dell’ex pm Felicia Genovese allo scandalo sui lavori del G8, che ha visto coinvolto tra gli altri il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro, fino alle toghe invischiate nella P 3 e nella P 4. E accetta di raccontare al Fatto Quotidiano la sua versione: “Non ho fatto altro che tradurre in pratica giudiziaria l’insegnamento di Giovanni Falcone, che più volte criticò il sistema di atomizzazione delle prove, sistema spesso utilizzato per vanificare in radice le inchieste di mafia”.

LE CRITICHE erano rivolte al tribunale della libertà di Potenza che aveva annullato alcuni arresti disposti nel novembre del 2004 (procedimento noto alle cronache come “Iena due”): tra questi, un’ex parlamentare, alcuni amministratori locali, diversi imprenditori e il presidente della Camera penale della Basilicata. La censura nei confronti di Iannuzzi era arrivata al termine di una serie di attacchi concentrici, dopo che aveva disposto gli arresti di alcuni personaggi eccellenti, politici, amministratori locali, faccendieri e di Vittorio Emanuele di Savoia. “Avevo anche reso dichiarazioni, come persona informata sui fatti, nell’ambito dell’inchiesta dell’allora pm di Catanzaro De Magistris, denominata Toghe lucane”. Tutto comincia dunque con l’inchiesta “Iena due”. “In quel procedimento viene indagato il gotha della classe politica lucana e, per la prima volta in Basilicata, sono messi a fuoco i legami tra la criminalità organizzata, i “colletti bianchi” e alcuni esponenti politici locali. L’arresto che provocò più rumore fu quello dell’avvocato Piervito Bardi, allora presidente della camera penale della Basilicata, con l’imputazione, tra l’altro, di favoreggiamento mafioso”. “Si crea una netta spaccatura all’interno del palazzo di giustizia di Potenza: da un lato, la procura della Repubblica, che aveva chiesto le misure cautelari; dall’altro, la procura generale, che assumerà, soprattutto con il suo titolare, Vincenzo Tufano, una posizione estremamente critica nei confronti dei pm titolari dell’inchiesta (il procuratore Giuseppe Galante e i sostituti Woodcock e Vincenzo Montemurro) e nei miei confronti, che avevo accolto, seppure in parte, le richieste d’arresto”.

“COMINCIANO le grane. Ispezioni ministeriali e perfino procedimenti penali, tra cui quello sulla cosiddetta password che sarebbe stata fornita ai giornalisti e sulle presunte irregolarità nel deposito dell’ordinanza d’arresto, a seguito soprattutto della pubblicazione di brani di intercettazioni telefoniche di noti personaggi pubblici. A muoversi è subito il procuratore generale Tufano, che davanti al Csm esprime nel 2007 pesanti critiche nei confronti di Galante, Montemurro e Woodcock e del gip Iannuzzi”. Gli attacchi diventano ancor più pesanti nel corso del procedimento “Toghe lucane”, quando Iannuzzi rigetta la richiesta di archiviazione formulata dall’ex pm di Potenza Felicia Genovese e ordina il processo per abuso d’ufficio nei confronti dei componenti della ex Giunta regionale della Basilicata. “Nello stesso tempo, trasmetto gli atti alla procura di Catanzaro, dopo che il denunciante, un ex direttore generale dell’Asl di Venosa estromesso dal suo incarico, aveva evidenziato che, dopo la richiesta d’archiviazione, Michele Cannizzaro, il marito della pm titolare del procedimento Felicia Genovese, era stato nominato direttore generale dell’ospedale S. Carlo, il più importante della Basilicata: dalla stessa giunta nei cui confronti la Genovese aveva dapprima indagato e poi chiesto l’archiviazione”. “Ma un vero e proprio putiferio si scatena dopo la pubblicazione sui maggiori quotidiani nazionali di ampi stralci del decreto di perquisizione del pm De Magistris, che contiene anche le dichiarazioni rese da me in merito ad alcuni intrecci tra politica, affari ed esponenti di spicco della magistratura lucana. Il ministro della Giustizia dispone subito un’ispezione. Arriva il trasferimento cautelare di De Magistris e del procuratore di Catanzaro, Lombardo. A chiedere il mio trasferimento per incompatibilità ambientale e sanzioni disciplinari nei miei confronti si aggiungono il procuratore generale Tufano, i pm Felicia Genovese e Claudia De Luca, il giudice Daniele Cenci nonché i vertici dell’avvocatura locale”.

“QUESTO ASSALTO non produce i risultati auspicati, ma io finisco vittima di una trappola: viene riesumato un mio provvedimento emesso nel novembre 2005, che non aveva suscitato le curiosità neppure degli ispettori ministeriali, che pure avevano spulciato le carte di Iena due. Mi contestano la mancanza di motivazione di alcune misure cautelari disposte con l’ordinanza (di ben 751 pagine) e avviano un altro procedimento disciplinare, che si conclude con il proscioglimento nella fase istruttoria. A ripescare quel vecchio documento sono due giudici che avevano composto il collegio del tribunale del riesame nella vicenda “Iena due”, Daniele Cenci e Luigi Spina, i quali due anni dopo, nell’agosto 2007, scrivono una nota contro quel mio provvedimento dimenticato. È frutto non tanto di legittime, differenti valutazioni cautelari, ma di astio nei miei confronti, dopo le mie dichiarazioni a De Magistris”. Che cosa aveva detto Iannuzzi al pm di Toghe lucane? “Dicevo che il pg Tufano aveva avuto un atteggiamento non equanime, poiché da un lato aveva segnalato alcune presunte irregolarità da me commesse, rivelatesi prive di fondamento; dall’altro aveva chiuso un occhio in vicende gravi che avevano coinvolto, tra gli altri, Felicia Genovese, su cui il pg aveva un potere di vigilanza (che non aveva invece nei confronti del gip). In particolare, aveva tralasciato l’evidente incompatibilità ambientale legata al ruolo del marito della pm, Michele Cannizzaro. Oltre a essere iscritto a una loggia massonica, Cannizzaro frequentava anche personaggi legati alla criminalità organizzata calabrese”. “Scarsa equanimità nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza, il pg Tufano l’ha dimostrata anche con l’atteggiamento mantenuto nei confronti di un altro sostituto, Claudia De Luca. Questa utilizzava il cellulare di servizio per telefonare alla cartomante, fatto per cui è sotto processo a Catanzaro per peculato. Inoltre aveva una relazione con il giudice Cenci. Sia ben chiaro: nessuna intenzione di violare la privacy dei due magistrati, ma la vicenda dimostra la mancanza d’imparzialità e correttezza da parte di Tufano”. E che Iannuzzi non aveva detto il falso quando segnalava una loro relazione, subito accusato dai due di calunnia e diffamazione, accuse poi archiviate. “Quello che appare come una beffa è che io, pur avendo agito nell’adempimento dei miei doveri di testimone, ho subìto una condanna disciplinare, mentre i magistrati denunciati sono ancora al loro posto, come Vincenzo Tufano, ancora indagato per gravi reati (associazione a delinquere ed abuso d’ufficio); oppure sono stati, come ex pm Genovese, trasferiti cautelarmene, o più realisticamente promossi, a Roma. Il procedimento disciplinare a suo carico non è stato ancora definito in primo grado, il mio è già irrevocabile”. “Io ho solo fatto il mio dovere senza guardare in faccia nessuno, con provvedimenti trasversali che hanno colpito tutti gli schieramenti politici e fatto venire alla luce intrecci perversi, che hanno visto coinvolti i miei stessi colleghi. Inoltre, ho la grave colpa di non essere inserito in alcun sistema di tutela, pronto a scendere in campo in mia difesa al momento del bisogno, perché non sono stato mai iscritto ad alcuna corrente associativa”.


Gianni Barbacetto (Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2011)








 

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