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Mafia, bugia di Stato PDF Stampa E-mail
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Scritto da Giuseppe Lo Bianco   
Domenica 04 Dicembre 2011 19:52
Da domani sfilano a Palermo ex ministri e dirigenti: qualcuno ha mentito sulla trattativa

Qualcuno forse ha mentito. Dietro le quinte del potere, prende forma l'ipotesi di una grande 'bugia di Stato', servita su un vassoio di argento ai magistrati di Palermo e Caltanissetta per coprire la verità sulla trattativa tra Stato e mafia. Una menzogna collettiva, orchestrata in perfetta sincronia da politici e funzionari dei massimi apparati antimafia, per impedire alle indagini di far luce sulla stagione della trattativa.
Un silenzio omertoso che di fatto ha coperto l'esistenza tra il '92 e il '93 di un articolato dibattito, aperto nelle sedi istituzionali, per valutare la revoca del 41-bis ai boss mafiosi e placare così la furia stragista.

Per chiarire i segreti più inconfessabili del negoziato che - dietro ai proclami giustizialisti - lo Stato avrebbe intavolato con gli assassini di Falcone e Borsellino, il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e i pm Nino Di Matteo e Paolo Giudo, hanno riconvocato, a partire da domani, gli ex ministri degli interni Nicola Mancino e Vincenzo Scotti, l'ex direttore del Dap Adalberto Capriotti, il vicecapo della Polizia Luigi Rossi e l'ex Guardasigilli Giovanni Conso (che, però, ha chiesto di essere sentito, per ragioni di salute, a Roma). Altri nomi nella lista dei convocati sono per ora top secret.
Ai ministri e funzionari i pm intendono chiedere come mai 'organi di Polizia ad alto livello', tra il '92 e il '93 discutevano se togliere il 41-bis ai detenuti mafiosi, così come ha rivelato nel suo interrogatorio dei giorni socrsi il funzionario del Dap Sebastiano Ardita.
Per i pm di Palermo, infatti, è ormai accertato che nei palazzi istituzionali il mantenimento del carcere duro, a un solo anno dagli eccidi di Capaci e via D'Amelio, non era affatto scontato ma era, invece, oggetto di una riflessione collettiva nel cuore degli apparati.

La prova è in due documenti che ormai da qualche mese sono custoditi nei fascicoli dell'indagine sulla trattativa.
Il primo è la nota riservata del capo del Dap Adalberto Capriotti, inviata il 26 giugno 1993 al ministro dell'epoca Conso, con la proposta di ridurre il numero dei detenuti al 41-bis del 10 per cento.
Una riduzione - sostengono in Procura - assai 'singolare perché quantitativa' e non, come sarebbe logico supporre, disposta 'sulla base del grado di pericolosità dei detenuti'. L'altro è proprio il verbale di Ardita che, con un racconto articolato, ha rivelato ai pm di Palermo una confidenza ricevuta l'anno scorso dal generale Mastropietro, capo della Sicurpena, l'organo di sicurezza delle carcei dei carabinieri (ora soppresso).
Ha detto Ardita il 7 novembre scorso ai pm di Palermo che Mastropierto 'mi disse che c'erano state delle riunioni, appunto in quell'epoca, nel corso delle quali si era parlato della possibilità di togliere il 41-bis. Lui aveva saputo di queste riunioni, ma non era stato invitato. Si parlò di una riunione ad alto livello, però non mi specificò chi partecipò: magari lo ricorda ancora, possibilmente insomma... riunioni con organi di polizia, non con magistrati'.
Quanto basta per tornare a scavare sulla gestione del 41-bis, che oggi più che mai si rivela la principale posta in gioco della trattativa in corso tra il '92 e il '93.
E si conferma soprattutto come l'argomento di grandi dibattiti scaturiti dall'esigenza di attenuarne la portata proprio per ridurre il rischio di nuove emergenze stragiste. Altro che 'decisione presa in solitudine', e in extremis, quella dell'ex ministro Conso, che interrogato dai pm di Palermo si assunse la piena responsabilità della scelta di revocare il carcere duro a 140 mafiosi rinchiusi in cella, nel novembre 1993.

Proprio cinque mesi dopo la nota inviatagli da Capriotti. Altro che revoche casuali, decise di volta in volta, e motivate da insuperabili cavilli giuridici.
Oggi la Procura di Palermo vuole verificare se, nel cuore dello stragismo, i vertici delle istituzioni antimafia discutevano apertamente di come 'chiudere' l'emergenza mafiosa concedendo alle cosche benefici penitenziari. Al punto da ipotizzare il varo di una nuova normativa sulla 'dissociazione' mafiosa, sulla scia della legge che era servita negli anni precedenti a chiudere l'emergenza terroristica.
E' stato Edoardo Fazioli, che nel '92 era il vice di Nicolò Amato al vertice del Dap, a raccontare ai pm di Palermo che nel secondo semestre del '92, poco dopo, dunque, la consegna del 'papello' descritta da Massimo Ciancimino, in via Arenula i funzionari del Dap discutevano se e come applicare la normativa prevista per i terroristi dissociati anche a eventuali mafiosi 'dissociati'. Dei quali, però, in quell'infuocata estate del '92, non v'era traccia.

Si parlava concretamente di costituire aree omogenee di detenzione, più lievi del carcere normale, ma più rigorose rispetto alla carcerazione dei collaboratori. Una discussione che oggi per gli inquirenti suona non solo come la prima conferma dell'attendibilità del 'papello' che, al punto 5, prevedeva appunto la dissociazione, 'come le Brigate Rosse'. Ma costituisce anche un riscontro formidabile per rafforzare l'ipotesi di un'enorme 'bugia istituzionale', escogitata da un pezzo della politica dell'epoca, per coprire altre responsabilità non ancora chiarite.


Giuseppe Lo Bianco (Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2011)









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