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Testimoni di giustizia: «Noi, traditi due volte» PDF Stampa E-mail
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Scritto da Carlo Vulpio e Benny Calasanzio   
Martedì 08 Luglio 2008 08:49

Lo Stato e gli eroi dell'antimafia

Testimoni di giustizia: «Noi, traditi due volte»

Hanno avuto il coraggio di denunciare i boss della malavita. Sono commercianti e imprenditori

di Carlo Vulpio e Benny Calasanzio

Non sono collaboratori di giustizia (i «criminali a contratto», come li chiamano negli Stati Uniti, o i «pentiti» come li abbiamo ribattezzati in Italia). Sono testimoni di giustizia. Persone che non hanno nulla di cui «pentirsi», se non, forse, di aver avuto fiducia nello Stato e di aver denunciato i crimini mafiosi.

Eppure ancora oggi, a sette anni dalla legge che ha riconosciuto e regolato lo status di testimone di giustizia, si continua a far confusione e, peggio, in molti casi si continua a guardare il collaboratore e il testimone con la stessa diffidenza, quasi fossero entrambi marchiati dal medesimo giudizio di «infamità» con cui i mafiosi bollano chi si dissocia da loro e cambia strada. L'unica cosa che accomuna i testimoni e i collaboratori — ma fino a un certo punto, perché questi ultimi hanno spesso dato prova di non essere credibili — è il fatto che gli uni e gli altri parlano e raccontano ciò che sanno. Fine. Se ne è accorto, con dieci anni di ritardo, anche il legislatore italiano e così finalmente la legge numero 45 del 2001 ha sostituito la precedente, del 1991, che non faceva alcuna distinzione tra testimoni e collaboratori. Con la nuova legge la disciplina prevista per i collaboratori è stata estesa ai testimoni di giustizia, che oggi sono 75.

Ma nessuna legge, anche quella animata dalle migliori intenzioni, può bastare a risolvere un problema, se le norme restano sulla carta e non vengono adeguate alla realtà che cambia. Figuriamoci in materia di criminalità organizzata e di testimoni di giustizia: persone che invece di piegare la testa la alzano, e denunciano, sono un pericolo mortale per il sistema omertoso sul quale si reggono tutte le mafie. E i mafiosi lo sanno. Infatti, anche a distanza di anni, non dimenticano chi li ha denunciati ed è diventato un «cattivo esempio» per tutti gli altri. I camorristi casertani del clan dei Casalesi, per esempio, non hanno dimenticato che Domenico Noviello, nel 2001, alzò la testa e denunciò le estorsioni subìte, facendo arrestare cinque persone. Lo hanno atteso fino al 15 maggio 2008 — la commissione parlamentare antimafia aveva appena depositato la sua relazione sui testimoni di giustizia — e a Castelvolturno gli hanno scaricato addosso venti colpi di pistola. Noviello era stato un testimone di giustizia, ma nel 2003 gli venne revocato il programma di protezione, perché secondo la commissione centrale di protezione (ministero dell'Interno) non correva più rischi. Un grave errore di valutazione? Può darsi, anche se si è trattato di un errore che è costato una vita umana. Poco più di un mese dopo, il 28 giugno scorso, ecco due donne, due sorelle calabresi, che sedici anni dopo aver fatto arrestare gli assassini di due loro fratelli rivelano di vivere ancora nel terrore di una vendetta, nonostante abitino sotto falso nome in una località protetta. «Non abbiamo un lavoro — dicono le due donne —, che potrebbe aiutarci ad uscire dall'isolamento in cui ci si trova dopo una scelta come la nostra». Il lavoro è un problema serio. Purtroppo non è l'unico a impedire che i testimoni di giustizia abbiano una vita il più possibile normale. A isolarli, a farli sentire abbandonati — è la stessa commissione antimafia a riconoscerlo — «è proprio chi per legge dovrebbe esaudire e non ostacolare le loro esigenze».

La «casistica» è varia, grave e incredibile. Per esempio, c'è stato chi aveva un lavoro in un ente pubblico e invece di essere protetto meglio è stato scoraggiato proprio dal servizio centrale di protezione a proseguire in quel rapporto di lavoro. A un altro testimone di giustizia è stata assegnata l'abitazione che era stata di un «pentito». Un altro ha perso la casa, venduta all'asta per 32 mila euro, perché non poteva chiedere prestiti in quanto «protestato» a causa delle estorsioni subìte. Mentre un altro testimone, anziché godere di uno di quei «mutui agevolati volti al completo reinserimento proprio e dei familiari nella vita economica e sociale», si è visto offrire un mutuo a un tasso addirittura superiore a quello di mercato perché considerato «soggetto a rischio». Poi c'è chi ha visto deprezzarsi i propri beni immobili di giorno in giorno perché lo Stato, come vuole la legge, non li ha acquistati a prezzo di mercato e chi, una volta accettato il programma di protezione, è rimasto rinchiuso in una caserma di polizia per cinquanta giorni senza poter mettere il naso fuori. Persino andare a deporre nei processi a volte è stata un'impresa, tanto che in alcuni casi il servizio centrale di protezione ha consigliato ai testimoni di non andarci. Mentre in una scuola hanno rifiutato l'iscrizione ai figli di un testimone poiché li hanno ritenuti «pericolosi». Per non dire dei documenti di copertura, spesso «incoerenti» tra loro (carta d'identità con generalità diverse dalla patente o dal libretto sanitario) o con quelli dei propri familiari (con moglie e figli che continuano a mantenere il vero cognome e dunque sono individuabili come bersagli di ritorsioni). Un altro grosso problema è lo sradicamento. Quasi tutti i testimoni di giustizia sono stati costretti a lasciare il luogo in cui sono nati e cresciuti e dove, per spirito civile, hanno denunciato i loro aguzzini. E mentre questi sono rimasti, loro, che hanno il certificato penale pulito, hanno dovuto andar via.

E oggi lo Stato non riesce a farli tornare a vivere e a lavorare dove vorrebbero. Se non è una resa, poco ci manca, perché di fatto i testimoni di giustizia vivono in esilio. Mentre, come un pugno in faccia, può accadere — il 3 luglio scorso, a Cosenza — che l'ex boss di 'ndrangheta, il «pentito» Peppino Vitelli, al quale si attribuiscono una ventina di omicidi, passeggi per le vie del centro protetto da cinque agenti di scorta. Infine, ma non ultimo per importanza, il tenore di vita, che secondo la legge non dovrebbe cambiare, ma che nei fatti cambia eccome. In peggio. Lo status socioeconomico dei testimoni di giustizia — nella quasi totalità liberi professionisti, imprenditori, commercianti, titolari di rendita, insegnanti — è medio-alto, mentre l'assegno statale va dai 1.000 ai 1.600 euro mensili. E tuttavia, anche la speranza che lo Stato offrisse ai testimoni di giustizia un'altra «uscita di sicurezza», con la possibilità di assunzione nella pubblica amministrazione, è naufragata. Il 18 giugno scorso il Senato ha detto di no. La questione però non è chiusa. Restano una domanda e una buona intenzione. La domanda: in questa situazione, chi si sentirà invogliato a diventare un testimone di giustizia? La buona intenzione: è il modello americano del United States Marshals Service, una struttura unica (al posto di commissione e servizio centrale di protezione) che assicuri al testimone sicurezza e piena garanzia dei diritti. Ma questo, per ora, da noi vale solo come slogan.


Carlo Vulpio

ha collaborato Benny Calasanzio

Fonte: www.corriere.it  (8 luglio 2008)

Comments:

Commenti
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Luana   |2008-07-09 00:23:41
Non credo che si sforzino di immaginare cosa vuol dire essere soli, lasciare la
propria casa, la propria famiglia, addormentarsi la notte e pensare se si
arriverà a domani e sopratutto riuscire a vivere in questo modo, senza neanche
un lavoro su cui contare.
Questo paese non riesce a garantire la sicurezza a
nessuno figuriamoci a queste persone che meritano un altra possibilità, un
altra vita davvero.
epolak   |2008-07-10 20:18:08
Io so cosa significa, perché sono nella stessa situazione, disoccupata, senza
un euro di entrata, in attesa dello sfratto da una casa popolare per
"occupazione abusiva", che mi è stata ssegnata nello stato grezzo, nel
1990. Ho un figlio a carico con patologia grave. Tutto quello che avevo mi è
stato truffato da un giudice tributario e company (senza che questi fossero
puniti). X completare ciò, i giudici ci hanno tolto anche il diritto agli
assegni alimentari che ci ha riconosciuto la Cassazione nella causa di
divorzio.
Tutto questo, perché ho denunciato chi non poteva essere denunciato,
per ciò, ho dovuto subire pure le aggressioni da parte degli "uomini
d'onore" i quali mi hanno già preannunciato la mia sorte.
Più di così?
Benny  - Il giornalista deve fare solo quello   |2008-07-09 12:14:20
L'errore in tutta questa storia è solo mio. Dovrei limitarmi a fare il mio
lavoro. Non dovrei prendere a cuore le storie degli altri, non dovrei aiutarli
ad uscire dall'anonimato e riprendere a vivere. Dovrei scrivere e riscuotere,
come fanno tutti. Non posso e non voglio spiegare metodologie di lavoro, e non
cerco riconoscenza. Ai due testimoni di giustizia la mia stima e un in bocca al
lupo per il futuro.

P.s. caro Antonino, il messaggio che mi hai mandato su
Pino me lo tengo per me, meglio così
Shiloh   |2008-07-09 23:11:44
Benny, tu non puoi far finta di essere quello che non sei.
Sei una persona
onesta, curiosa e coraggiosa.

Insomma,il classico rompipa//e.

Rifletti,
sei nato in una terra dove farsi gli affari propri vuol dire campare fino a 100
anni.
Hai sperimentato sulla tua pelle cosa voglia dire "non" farsi gli
affari propri.
Avresti tutto il diritto di dire "ma chi me lo fa
fare?"
Però non lo dici e continui ad occuparti dei fatti di tutti, con
impegno, competenza e ironia, tutte doti che fanno di te un bravo
giornalista.
Cioè una persona che fa bene il proprio mestiere.

Tu non sei
in errore, in errore, anzi, in malafede, è questa Nazione fatta di gente senza
amor proprio, senza dignità e senza pa//e.


Luciana
Luana   |2008-07-10 00:01:38
Invece credo che quello che stai facendo sia di grande importanza, perchè
raccontare, informare la gente di cose che non sa, equivale in un certo modo a
combattere tutta questa indifferenza. E di gente coraggiosa e altruista c'è ne
sempre bisogno.
epolak  - Tindari Baglioni   |2008-07-10 15:11:20
Ho letto un articolo che si riferiva a Tindari Baglioni, ma non riesco a
ritrovarlo.
Saprebbe qualcuno dirmi che funzione ha attualmente il Tindari e
dov'é? Lui è stato Procuratore-Capo della Repubblica di Pistoia (patria della
Massoneria) ed ha insabbiato vari procedimenti nei quali ero parte offesa e
coinvolgevano persone potenti. Incomprensibilmente, la Cassazione ha dichiarato
inammissibili alcuni miei ricorsi, e mi è venuto il dubbio ché qualcosa
c'entrasse anche lui, considerato che i ricorsi riguardano procedimenti nei
quali lui aveva la manina da Procuratore-Capo di Pistoia.
Attualmente, il
Tindari è indagato presso la Procura di Genova per insabbiamento di un
procedimento, ma non per le mie denunce che sono state tutte insabbiate da atti
non costituenti reato dalla Procura di Genova.
saluti a tutti.
salvatore   |2008-07-10 16:41:56
Nel sito, in alto a destra, c'è una funzione di "Search". Digita
"Tindari" e ti appariranno tutti i riferimenti riportati in passato nel
sito che riguardavano Tindari Baglione.
In particolra ne troverai uno, ripreso
da Diario, a firma di Gianni Barbacetto
epolak   |2008-07-10 20:07:59
grazie mille

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