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La svolta dopo vent'anni: Borsellino fu ucciso perché di ostacolo alla trattativa Stato-mafia PDF Stampa E-mail
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Scritto da Manuel Montero   
Domenica 18 Marzo 2012 12:37
Caltanissetta, marzo 2012. Quattro nuovi arresti portano a una svolta nelle indagini della Procura di Caltanissetta per la strage di via D’Amelio. Che dopo tre diversi processi fosse tutto da rifare era chiaro da un pezzo, ufficialmente da quando sette boss mafiosi, condannati per la morte del magistrato Paolo Borsellino e per i cinque agenti della scorta, erano stati scarcerati in previsione della revisione. A sbriciolare l’inchiesta madre per la strage sono state le dichiarazioni di un boss di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, che si è autoaccusato del furto della 126 esplosiva, del quale, in precedenza, si era falsamente autoaccusato lo spacciatore Vincenzo Scarantino. Che poi aveva portato agli ingiusti arresti di un nutrito numero di mafiosi.
Per comprendere bene ciò che viene ipotizzato oggi, bisogna tornare al 23 maggio 1992, quando Giovanni Falcone, insieme alla compagna e alla scorta, saltò per aria a Capaci. Paolo Borsellino sapeva che il prossimo sarebbe stato lui. Il primo di luglio aveva interrogato il pentito Gaspare Mutolo, già autista di Riina, che iniziò a raccontare le cose che avrebbe già voluto dire a Falcone, incontrato in gran segreto mesi prima al carcere di Spoleto. Borsellino non aveva ancora verbalizzato quando lo vide l’ultima volta, il 17 luglio, ma segnava tutto sulla sua agenda rossa da cui non si separava mai. Di certo, però, secondo le indagini odierne, basate anche su ricordi affiorati dopo vent’anni di diversi esponenti istituzionali, fu poco dopo Capaci che iniziò una trattativa segreta tra i carabinieri del Ros e Cosa Nostra per fermare la scia di sangue mafiosa. Una trattativa di cui Borsellino era forse venuto a conoscenza e alla quale si era opposto: questo potrebbe essere stato il motivo per cui, a soli 57 giorni da Capaci, anche lui fu ucciso. La sua agenda rossa sparì e oggi nessuno sa dov’è. Accadde tutto la domenica pomeriggio del 19 luglio. Borsellino era andato a casa della sorella per prendere la madre e portarla a una visita medica. Alle 16,58 suonò al citofono in via D’Amelio. E fu in quel momento che una 126 rubata parcheggiata nei pressi e imbottita di Semtex, un esplosivo militare, scoppiò, ammazzando lui e la sua scorta.

Le indagini puntarono subito su un dettaglio: chi poteva aver avvertito Cosa Nostra dell’arrivo imprevisto di Borsellino a casa della sorella? La squadra mobile “attenzionò” un operaio dei telefoni che aveva svolto lavori nel palazzo di via D’Amelio e che poteva aver tentato una rudimentale intercettazione, certo Pietro Scotto, fratello di un boss dell’Arenella, Gaetano. La seconda domanda era: chi aveva rubato e portato lì la 126? A ottobre 1992 la falsa pista prende corpo. Salvatore Candura, negli uffici della questura di Mantova, dichiara al capo della mobile palermitana Arnaldo La Barbera, di averla rubata per conto di tale Vincenzo Scarantino, cognato del boss di Santa Maria del Gesù Salvatore Profeta. E Scarantino, arrestato, confessa: «è vero». E sostiene sia stato Gaetano Scotto a dire quando sarebbe arrivato Borsellino. Quindi fa i nomi di tutti gli autori della strage, arrestati uno dietro l’altro. Dirà Bruno Contrada, già numero tre del Sisde, al proprio processo, in un’agenzia del 25 novembre 1994, per difendere il proprio operato prima del suo arresto del dicembre '92: «Realizzammo una sorta di schedatura degli esponenti della famiglia Madonia, cercammo di individuare l’officina dove l’auto venne imbottita di tritolo. Accertammo anche rapporti tra Scarantino ed esponenti mafiosi». Solo che Scarantino non ha esattamente il profilo dell’uomo d’onore: vive di spaccio e contrabbando di sigarette, frequenta una transessuale nota come “Giusy la sdilabbrata”. In aula il boss Salvatore Cancemi lo guarda e gli dice: «Ma tu chi sei?». La prima a non credergli è proprio sua moglie, che in una lettera a Silvia Tortora – figlia del presentatore Enzo – spiega come il marito abbia confessato dietro minaccia e che è stato indottrinato. Il nuovo gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino” guidato da La Barbera si rompe. Il suo vice, il commissario capo Gioacchino Genchi, che non crede a Scarantino, se ne va sbattendo la porta nel maggio 1993. Ma Scarantino viene ritenuto affidabilissimo da pm e giudici, condannato a 18 anni e messo sotto protezione. È un effetto a catena la sua confessione, che reggerà per tutti i processi. Quattro anni più tardi Scarantino, devastato dal rimorso, ritratta: racconta le minacce di morte subite, fa accuse pesantissime su La Barbera. Ma i pm del Borsellino-bis sono sicuri e all’Ansa, il 15 settembre 1998, fanno sapere che dietro la sua ritrattazione c’è la mafia. Le indagini sembrano infatti solidissime. La sua ritrattazione porta all’assoluzione di Pietro Scotto, ma il resto della teoria regge fino a quando un vero boss di calibro, Spatuzza appunto, si presenta ai magistrati 16 anni più tardi: «La 126 l’ho rubata io». Uno shock. Cambia tutto: autori e mandanti. Viene anche fuori che La Barbera, ora defunto, avrebbe lavorato per i servizi segreti con il nome di Rutilius. Scarantino urla ciò che aveva detto invano già nel 1998: «Io di mafia non so niente». Adesso la svolta: a rubare l’auto sarebbero stati Spatuzza e Vittorio Tutino. Salvatore Madonia è accusato di essere tra i mandanti, come componente della commissione provinciale di Cosa Nostra di Palermo, quando furono decise le stragi. Il basista, che diede informazioni sull’arrivo di Borsellino, sarebbe invece Salvatore Vitale, che abitava al pian terreno nello stabile e avrebbe potuto anche agevolare il parcheggio della 126 rubata. Ai quattro è contestata anche l’azione per fini terroristici. Secondo l’ultimo pentito, Fabio Tranchina, ad azionare il telecomando della bomba fu il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, appostato dietro un muro in fondo alla strada. Nelle 1670 pagine del provvedimento resta un mistero, il più importante: nel garage in cui la 126 fu imbottita di esplosivo c’era un uomo che non apparteneva a Cosa Nostra e che Spatuzza non aveva mai visto. Vent’anni dopo sarà più difficile dargli un volto.

Manuel Montero (Settimanale STOP, 17 marzo 2012)



«Era contrario ai compromessi»

L’ipotesi di Nicola Biondo, giornalista e autore del libro Il patto

Giornalista, autore de Il Patto (Chiarelettere), Nicola Biondo è fermo sostenitore dell’ipotesi della trattativa tra Stato e mafia, su cui è incentrato il libro. «Borsellino era solito dire che “la mafia e lo Stato agiscono sullo stesso territorio, o convivono o si fanno la guerra”. Oggi con le inchieste di Palermo e Caltanissetta abbiamo le prove che tra il 1992, o forse ancora prima, e il 1994, Cosa Nostra ha trattato con pezzi dello Stato. Cosa ha ottenuto? Questa è la domanda. Uno degli strateghi di quella trattativa, Matteo Messina Denaro, è ancora, scandalosamente, latitante. Borsellino era a conoscenza dei colloqui tra Vito Ciancimino, portavoce di Provenzano, e apparati dello Stato. È certo anche che si sarebbe messo di traverso a qualsiasi ipotesi di colloquio con i boss». E il falso pentito Scarantino? «E' stato inventato in laboratorio da un nucleo di polizia», spiega. «Su di lui e su altri sono stati usati metodi che non potevano che portare al fallimento. La verità è che se la polizia giudiziaria vuole ingannare il magistrato, quasi sempre ci riesce. Ma è evidente pure che per via D’Amelio s’è trattato di un colossale depistaggio. La domanda è: perché?».






«E' tempo che l’omertà finisca»

A Stop parla Salvatore Borsellino, il fratello del giudice-eroe

Credo che finalmente, a vent’anni di distanza, quella verità che io continuo a gridare da almeno cinque anni, cioè che mio fratello sia stato ucciso perché si era messo di traverso rispetto a una scellerata trattativa tra Stato e mafia, tra Stato e antiStato, cominci a farsi strada». Salvatore Borsellino commenta così, a Stop, l’ultimo colpo di scena nelle indagini sulla morte del fratello Paolo. «Comincia a emergere anche il colossale depistaggio che, come per altre stragi di Stato nel nostro disgraziato Paese, è stato messo in atto».

Com’è possibile che tanti abbiano ricordato solo adesso, dopo vent’anni?
«Credo che dopo le fondamentali rivelazioni di Spatuzza e le seppur controverse e frammentarie dichiarazioni di Massimo Ciancimino e l’impulso che è stato dato di conseguenza alle inchieste sulla strage e in particolare sulla trattativa, i tanti personaggi delle istituzioni che finora avevano partecipato a questa congiura del silenzio durata vent’anni abbiano pensato che era più conveniente per loro cominciare ad ammettere qualcosa piuttosto che doverlo fare davanti ai magistrati».

Che idea si è fatto della gestione del falso pentito Scarantino?
«Quello che soprattutto mi chiedo è chi abbia messo in bocca a Scarantino delle false confessioni che però corrispondevano a cose vere seppure compiute
da altri. Chi l’ha fatto doveva essere qualcuno che ben conosceva i particolari della strage e per conoscerli doveva avere partecipato alla sua organizzazione. Mi chiedo poi fino a quale grado fosse complice di questa macchinazione chi ha valicato durante tre gradi di giudizio le sue dichiarazioni che da parte di tanti, anche da magistrati, erano viste come palesemente false».

Lei pensa che l’agenda rossa esista ancora o che sia stata distrutta?
«Penso che non solo esista ancora, ma che chi la detiene regga la rete di ricatti incrociati che ha segnato il cammino di questa disgraziata Seconda Repubblica. Rappresenta un elemento di ricatto troppo importante per essere distrutto. Per chi la detiene è insieme uno strumento di potere e un’assicurazione sulla vita».

Da quando lei ha chiesto giustizia per suo fratello, l’ha seguita un intero popolo, il “popolo delle agende rosse”. Si aspettava di trovare così tanti giovani al suo fianco nella battaglia per la ricerca della verità?
«Ho intuito presto che più che dagli adulti proprio dai giovani venisse quest’esigenza di verità e di giustizia. In loro ho trovato, da un lato, la stessa rabbia che dà a me la forza di continuare a combattere e, dall’altro, la voglia di sapere. Fondamentale è poi per questi giovani un vero sentimento di amore per Paolo e per quello che rappresenta».






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