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Mafia, da Corleone a Duisburg. Intervista a Petra Reski PDF Stampa E-mail
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Scritto da Egidio Morici   
Sabato 09 Giugno 2012 15:46
Miglior Giornalista del 2008 nella categoria “reporter” in Germania, autrice di varie pubblicazioni anche in Italia, tra cui “Santa Mafia” (Nuovi Mondi, 2009) e “Sulla strada per Corleone” (Edizioni Ambiente, 2011). Si occupa di mafia sin dai tempi del maxi-processo di Palermo, collaborando con varie testate tedesche come Die Zeit, Geo, Focus, Merian. Da anni impegnata nel descrivere come le mafie non siano soltanto un problema italiano ma anche tedesco.
 
In Germania la mafia viene percepita in modo diverso rispetto all’Italia?
La mafia è sempre considerata un problema degli altri. Per i tedeschi è un problema italiano, per gli italiani è un problema delle regioni del sud; magari qualcuno da Palermo dice che la mafia è a Trapani. È una rimozione a carattere globale, spesso aiutata dai mass media e dalla politica. Purtroppo in Germania non c’è alcun interesse a toccare questo tasto. I cittadini tedeschi, da questo punto di vista, si trovano in un sonno profondo che le istituzioni non hanno nessuna voglia di interrompere. Anche lì la mafia non potrebbe vivere senza il sostegno di certa politica. E anche lì non è affatto un corpo estraneo. Dai rapporti della Polizia Federale e dalle informazioni della magistratura, appaiono subito evidenti i collegamenti con un impressionante numero di cittadini tedeschi: commercialisti, avvocati, prestanome e politici.
Dopo la strage di Duisburg, la presenza della mafia è stata largamente documentata da tanti atti; è un fatto, un dato certo. Eppure, a due anni di distanza, il Ministero dell’Interno ha dato delle risposte negazioniste, come avveniva negli anni ‘70 in Sicilia, dicendo che la presenza della mafia non può essere confermata.
 
Una mafia derubricata a mero problema di pubblica sicurezza?
Assolutamente si. Viene presentato solo il suo aspetto militare. I cittadini tedeschi hanno ancora una visione folcloristica della mafia, senza una corretta informazione sulle implicazioni politiche e sociali. È un’anestesia voluta dal potere, forse nel rozzo tentativo di rassicurare la gente. Ma si tenta di non parlarne anche per altri motivi: non dimentichiamo che nella ricostruzione della Germania dell’est ci sono tanti investimenti della ‘ndrangheta, ma anche della Camorra e di Cosa nostra. Anche da questo si capisce quanto possa far comodo ridurre la mafia al solo problema di ordine pubblico.
 
Come giudica la nascita della nuova commissione Parlamentare Antimafia Europea?
Una cosa ottima. Sonia Alfano ha fatto un grandissimo lavoro. Fin quando un cittadino inglese, francese, tedesco, continuerà a pensare che la mafia sia un problema solo italiano, le possibilità di combatterla efficacemente saranno molto ridotte. Una commissione di questo tipo sarebbe dovuta esserci da tempo e, se non ci fosse stata Sonia Alfano, forse non sarebbe mai nata. E’ un buon punto di partenza, impreziosito dalle competenze di validi magistrati italiani come Scarpinato, Gratteri e Ingroia.
 
Uno degli obiettivi della “risoluzione Alfano” è l’introduzione del 416 bis, il reato di associazione di tipo mafioso, in tutti gli stati europei. Che ne pensa?
Magari! Ho toccato spesso questo tasto, ma finora i segnali non sono mai stati positivi. In passato, mi è capitato di parlare con funzionari di alto rango del Ministero della Giustizia in Germania, che però non ritenevano per nulla necessaria l’introduzione del reato di associazione mafiosa. La risposta è stata che già si ha l’associazione a delinquere e questo ci basta.
 
Perché si fa fatica a parlare di mafia in Germania?
La strage di Duisburg è stata dimenticata e le istituzioni non hanno aiutato la gente a ricordare e a riflettere. Chi lo fa spesso non è visto di buon occhio: qualcuno in Germania mi ha detto che io vedo  la mafia anche nel caffelatte. Anche se qualcosa si sta muovendo.
Abbiamo fatto un incontro con salvatore Borsellino, Antonio Ingroia, un magistrato tedesco e un esponente della polizia di Stoccarda. Dal pubblico qualcuno aveva chiesto ad Ingroia se avesse ricevuto pressioni politiche durante le indagini su Marcello Dell’Utri e Ingroia aveva descritto in maniera diplomatica, ma chiara, ciò che in Italia si sa molto bene.  A quel punto ho chiesto al magistrato tedesco se, in caso di indagini a personaggi politici di spicco, si sarebbero potute verificare pressioni simili a quelle avvenute per Ingroia. Mi rispose che non ci sarebbe mai stata alcuna pressione politica, provocando in sala una vera e propria rivolta. La gente comincia ad essere consapevole degli intrecci politico-mafiosi, che potrebbero  prendere piede in ogni momento e a casa propria.
 
Anche perché in Germania la magistratura dipende dal governo?
Purtroppo si, da noi non c’è un CSM. Il fatto che il potere giudiziario non possa contare sulla propria autonomia è un grosso handicap. Inoltre, un magistrato che parla in pubblico non è visto di buon occhio. Ci sono tanti bravi magistrati in Germania, ma quei pochi che avevano scelto di dire la propria pubblicamente sono stati bacchettati. Per carità, anche in Italia, da quando la magistratura ha cominciato ad interessarsi ai colletti bianchi della politica, si è assistito ad un continuo attacco con accuse di protagonismo che hanno reso il lavoro dei giudici ancora più difficile, però in Italia almeno ci sono punti di vista differenti che trovano un loro canale d’espressione. In Germania pare che su queste cose ci sia un muro molto più compatto. Sembra mancare quella consapevolezza sociale del problema, che va oltre le sentenze.
 
Spesso, sindaci di comuni siciliani dove la presenza della mafia è molto pregnante, tendono ad enfatizzare la grande distanza che c’è da una maggioranza di cittadini onesti che nulla hanno a che fare con la mafia. Ad esempio, per anni, il sindaco di Castelvetrano ha ripetuto che la città starebbe scontando una colpa non sua in termini di immagine, soltanto per aver dato i natali al noto latitante Matteo Messina Denaro. Come vede questo tipo di approccio?
In Italia la difesa incondizionata del proprio è molto diffusa. Ma credo che le distanze vadano prese con consapevolezza. Non basta certo dire: la mia città non c’entra. Occorrere anche favorire una presa di posizione netta contro un sistema più ampio, fatto di sostegno e di fiancheggiatori a volte molto radicati all’interno della società stessa. Bisognerebbe forse creare quelle condizioni che possano stimolare la partecipazione della gente anche alle manifestazioni antimafia. Manifestazioni che però devono essere credibili, prendendo le dovute distanze non soltanto da Matteo Messina Denaro, Riina o Provenzano, ma anche da quei politici che non rappresentano in maniera specchiata la legalità in ogni suo aspetto. Non bisogna dimenticare che, ancor prima delle rilevanze penali, esiste una responsabilità morale. Se uno è stato indagato per fatti di mafia, anche se alla fine non ha ricevuto condanne, certamente non è la persona giusta per parlare di antimafia in pubblico.
 
Nella città di Matteo Messina Denaro, la quasi totalità dei commercianti non paga il pizzo. Come legge questo dato in controtendenza rispetto ad altre città, dove invece le estorsioni sembrano essere la cartina tornasole della presenza mafiosa?
Il senso del pizzo è il controllo del territorio. Questa è un’anomalia molto interessante, perché in questo modo si ottiene il consenso, che è qualcosa di molto più prezioso di un controllo imposto.
Può essere letto come una sorta di importante investimento, in base al quale non si produrrà il fisiologico malcontento della gente per un’oppressione economica che suonerebbe troppo scomoda, soprattutto in tempi di crisi. Sappiamo ormai da tempo che il business della mafia non sta affatto nei proventi del pizzo. Direi che in questo caso, paradossalmente, il controllo del territorio stia proprio nell’esenzione del pizzo.
 
Che differenze ci sono tra il giornalismo italiano e quello tedesco, nel trattare l’argomento mafia?
Ci sono in Italia, tanti giornalisti e collaboratori coraggiosi che alla fine fanno una sorta di servizio sociale, perché non hanno sufficienti tutele, non vengono pagati, ma sono loro che fanno le inchieste e portano alla luce fatti che diversamente rimarrebbero nell’ombra. Molto interessante, per esempio, il lavoro di Alberto Spampinato (fratello di Giovanni, il giornalista ucciso dalla mafia nel 1972, nda) con l’Osservatorio sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza.  Mi ha colpito molto la sua denuncia sulla presenza dei tanti giornali che, ancora oggi, fanno da megafono ai boss e solo in pochi hanno il coraggio di distinguersi da una maggioranza silenziosa.
Però posso dire che la tendenza al rimosso è presente in Germania molto più che in Italia. Basta pensare al settimanale Der Spiegel, che si è vantato di avere tra i suoi collaboratori persone come Francesco Sbano, fotografo calabrese residente ad Amburgo, artefice del successo delle canzoni di ‘ndrangheta. Insomma, un’operazione tesa da un lato a trasformare in folclore tipicamente italiano un fenomeno così complesso e dall’altro a fare business con cd musicali in cui è possibile ascoltare brani discutibili come “Cu sgarra paga”, “Appartegnu all’onorata”, o “La me galera”. E stiamo parlando di Der Spiegel, non di un giornalino di quartiere.
Come vede, il lavoro da fare è ancora tanto. E certamente non può essere delegato alla sola magistratura e alle sentenze definitive.

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