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FINO ALL’ULTIMO GIORNO DELLA MIA VITA. Intervista a Benny Calasanzio Borsellino PDF Stampa E-mail
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Scritto da Luca Bardaro   
Lunedì 02 Luglio 2012 16:36
 
 

Prosegue l’impegno di Amedit sul fronte dell’antimafia, tema a noi molto caro. Dopo Salvatore Borsellino, è la volta di Benny Calasanzio Borsellino, già cronista dell’Arena di Verona, attualmente  collaboratore del Fatto Quotidiano e di molte altre testate on line, la cui attività di scrittore si concentra sulla lotta contro la mafia. Dopo Sotto Processo (2010) e Mafia Spa (2011), entrambi pubblicati da Editori Internazionali Riuniti, esce ora Fino all’ultimo giorno della mia vita (Aliberti Editore), scritto a quattro mano con Salvatore Borsellino. Lo incontriamo in occasione della presentazione al Salone Internazionale del Libro di Torino.

Ciao Benny,  come parente di due vittime della mafia potresti raccontarci brevemente questa tragica storia?

Mio nonno e mio zio, Giuseppe e Paolo Borsellino, solo omonimo del giudice, erano due piccoli imprenditori di Lucca Sicula, in provincia di Agrigento. Avevano un’impresa di calcestruzzi che era entrata negli appetiti delle cosche mafiose locali. Furono uccisi nel giro di otto mesi l’uno dall’altro per non aver ceduto alle mafie e per aver mantenuto fede alla promessa fatta alla dignità di ognuno di loro.

Sul tuo blog si legge: “Un familiare di vittime di mafia passa metà della sua vita a difendere la vittima e l’altra metà a difendere se stesso”. Quale il senso che vuoi dare a questa frase?

Non voglio dare alcun senso, purtroppo ce l’ha già insito. Un familiare di vittime di mafie, dopo aver subìto un lutto tremendo che uccide anche una parte di te, deve far fronte alla delegittimazione del proprio caro appena ammazzato, alle voci che dicono “ma quale mafia e mafia, questione di donne fu” e cose del genere. Ciò è successo in quasi tutti gli omicidi di mafia. Poi, quando non ci riescono, provano a distruggere chi è rimasto, chi resiste. E allora ti dicono che di professione fai il parente delle vittime di mafia, che vuoi fare carriera sul corpo dei tuoi cari. Ti assicuro che la cattiveria umana non ha limiti e se ne frega se queste parole trafiggono, ancora una volta il cuore. Poi però ci fai l’abitudine, non te ne curi. Per aver aggiunto il cognome di mia madre, Borsellino, al mio, Calasanzio, sono stato accusato di ogni tipo di infamità, dal voler vendere più libri al voler millantare una parentela col giudice.

Hai voluto assumere totalmente l’impegno nella lotta contro la Mafia, fin nella scelta, significativa, di farti aggiungere anche il cognome di tua madre, Borsellino. Cosa ti ha spinto a fondare con Salvatore il “Popolo delle Agende rosse” e quale il bilancio che si può trarre dall’azione di questo movimento?

Come ti dicevo, questo cognome mi ha reso una persona completa. Mi sento a posto con me stesso, ora anche sui documenti c’è traccia di mio nonno e di mio zio. Una piccola vittoria. Le Agende Rosse in realtà sono nate in autonomia. Io e Salvatore abbiamo iniziato a girare l’Italia insieme, lui a raccontare una storia troppo conosciuta e io una troppo poco conosciuta. Sempre più persone hanno iniziato a venire ai nostri incontri e in poco tempo ci siamo trovati ad avere problemi di sedie! Ci siamo trovati, ci siamo voluti bene e oggi siamo inseparabili, nonostante lui abbia circa 40 anni in più di me. Grazie agli uomini e alle donne delle Agende Rosse oggi in Italia c’è una coscienza critica che conosce, che sa, che non può più essere presa in giro. In alcuni casi sulla strage di Via d’Amelio sanno molto di più le Agende Rosse che gli addetti ai lavori.

Tu hai lavorato nella segreteria politica di Sonia Alfano oggi presidente della commissione antimafia europea. Pensi che l’Europa finora non dotata di strumenti giuridici contro la mafia potrebbe dare un contributo maggiore di quello che ha dato l’Italia contro questa cancrena?

Lavorare con Sonia Alfano è un’esperienza che ti segna. Lei ha dedicato tutta la sua vita a combattere cosa nostra, lo faceva nelle piazze ora lo fa al Parlamento europeo. Ovviamente del suo impegno in Italia non si parla in alcun modo. È stata nominata presidente della Commissione europea antimafia e nel Bel Paese è come se non fosse mai successo. Lei è già al lavoro per unificare la legislazione antimafia europea, per esportare il modello italiano e prendere dagli altri Stati i provvedimenti legislativi che possono servire agli altri Paesi. Sì, una speranza grazie a Sonia viene anche dall’Europa.

Dopo “Sotto processo” in cui vediamo elencati nomi di politici e colletti bianchi sotto processo, e “Mafia S.p.a.”, dove descrivi i numerosi affari illeciti e soprattutto  gli enormi flussi di denaro che amministrano le mafie, ecco il tuo nuovo libro “Fino all’ultimo giorno della mia vita” scritto a quattro mani con Salvatore Borsellino. Questo libro sembra proprio che era da fare e si è fatto. Parlaci un po’ della sua gestazione.

Ero certo che Salvatore non avrebbe mai scritto un libro. A lui non piace raccontarsi, celebrarsi, e odia chi lo fa. Ho dovuto lavorare molto per convincerlo che sarebbe stato un libro diverso, un viaggio insieme alla scoperta di aneddoti e circostanze della sua vita con Paolo che altrimenti sarebbero andati persi per sempre. Alla fine dell’ultima intervista ci siamo abbracciati a lungo e mi ha ringraziato per averlo convinto perché aprirsi e raccontare gli ha fatto bene.

Sia il titolo che la copertina danno l’impressione di voler essere quasi un testamento per le nuove generazioni. Puoi darci qualche anticipazione?

Io lo considero un regalo che Salvatore ha voluto fare a me e a tutti i giovani di ieri, di oggi e di domani. È un testamento, sì, ma spero che tale divenga solo tra cent’anni. Salvatore ha voluto regalarmi storie, emozioni, ricordi, me li ha affidati affinché io li trasmettessi a chi, un giorno, vorrà sapere chi era davvero Paolo Borsellino e cosa sognava, cosa amava, di cosa rideva di cuore.

Quali reazioni speri di suscitare in quanti lo leggeranno?

Spero che la rabbia contro i responsabili che ci hanno privato di un uomo speciale come Paolo Borsellino travolga trattative, uomini collusi, magistrati smemorati, carabinieri infedeli e tutti coloro che dopo vent’anni fanno di tutto per seppellire per sempre la verità.

Dopo questa presentazione al Salone del Libro di Torino sicuramente lo troveremo il 19 luglio in via D’Amelio a Palermo.Tu adesso vivi a Verona, qual è il tuo rapporto con la Sicilia? Noti un cambiamento nella  coscienza collettiva siciliana?

Ho lasciato la Sicilia molti anni fa e ho la certezza che non tornerò più a viverci. La Sicilia ha chiesto molto alla mia famiglia e in cambio non ha serbato nemmeno la memoria, il ricordo. I giovani siciliani nascono con un patrimonio inestimabile, quello di aver visto la luce nella terra di Falcone, Borsellino, Chinnici, La Torre. E invece sembrano ormai averlo dimenticato. Certo, poi ci sono eccezioni valorose come le associazioni che crescono sempre di più e urlano alla mafia che non ci stanno.

La mafia può ancora essere considerata un fenomeno circoscritto alla Sicilia o al  solo meridione? Quali sono i luoghi, reali,  della mafia, quelli in cui prospera e si consolida?

Ormai è rimasto solo qualche leghista distratto a pensarla così. Le mafie oggi sono molto più pericolose e infiltrate al Nord di quanto lo siano nei loro territori di origine. Io mi occupo di infiltrazioni nel Veneto, e devo dire che la situazione mi fa molta più paura di quanto potessi pensare prima di arrivare. Qui c’è un assalto agli appalti e al cemento, alle aziende in dissesto, al mercato dell’usura. E nessuno, a livello istituzionale, alza il sopracciglio.

A livello istituzionale, al di là dei proclami e dei tanti blitz che fanno da copertina ai TG comprese le esternazioni del procuratore antimafia Piero Grasso, c’è una reale lotta alla mafia? In che modo ritieni si possa veramente sconfiggere?

Su Grasso e sulle sue dichiarazioni pro-Berlusconi e contro Ingroia vorrei stendere un velo pietoso, sperando in un colpo di sole o in uno svarione. Credo che un buon punto di partenza sia non eleggere mafiosi in Parlamento, cosa ne dici? Un altro potrebbe essere non massacrare i fondi per forze dell’ordine e magistratura.

Un cittadino comune quali strumenti oggi può avere per opporsi all’oppressione mafiosa, e in che modo viene tutelato?

Un cittadino comune deve guardarsi intorno e capire che non è solo. Che ci sono altri come lui, ci sono le associazioni antimafia, ci sono molti magistrati in gamba. Deve però prima di ogni cosa rendersi conto che prima di chiedere il rispetto delle leggi e dei diritti deve essere lui stesso a sentirsi e ad agire in modo profondamente antimafioso. Ho conosciuto molti profeti che predicavano al mattino e peccavano alla sera.

Luca Bardaro


da Amedit.it
 

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