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Strage di via D’Amelio: tutto quello che non vi hanno detto PDF Stampa E-mail
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Scritto da Edoardo Montolli   
Venerdì 27 Luglio 2012 17:52

6 luglio 2012. L’anniversario della strage di via D’Amelio si avvicina. I tre processi per la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta sono stati smontati dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, boss di Brancaccio, autoaccusatosi quasi vent’anni dopo del furto della 126 che esplose il 19 luglio 1992. Prima di lui il muro portante dell’indagine era stato costituito dalla confessione di tale Vincenzo Scarantino, mezza tacca del crimine, che, uno a uno, aveva chiamato in causa tutti i boss. Ma rivelatosi infine un falso pentito. Ora che, per effetto delle dichiarazioni di Spatuzza, sette persone accusate da Scarantino – che con la strage non c’entravano nulla – sono state scagionate dopo anni di prigione, si va verso la conclusione delle nuove indagini. Scarantino ha depistato, si dice. Non si sa perché. L’unica cosa che trapela dalle agenzie è che per il famigerato depistaggio, per i poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino che gestirono la sua collaborazione e che sono stati indagati, si andrebbe verso l’archiviazione. Mentre Scarantino rischierebbe nuovamente la galera per calunnia aggravata. E allora, forse, è il caso di ricordare ciò che accadde. Perché, in realtà, anche se nessuno ha voglia di dirlo e neppure di immaginarlo, Scarantino potrebbe benissimo essere uno di noi. Uno, per essere chiari, che della strage non sa assolutamente niente, finito dentro questa storia in maniera rocambolesca.


LA STRAGE
Domenica 19 luglio 1992, alle 16,58 una 126 imbottita di Semtex e piazzata in via D’Amelio dilania il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Il Semtex è un esplosivo militare, anche se, nell’Europa dell’Est, è già usato come esplosivo civile nelle cave. C’è molta confusione. Nei primi momenti non è nemmeno chiaro dove sia avvenuta la strage, tanto che le agenzie scrivono che è accaduto in via Autonomia Siciliana (alcuni penseranno infatti che la vittima sia l’ex pm Giuseppe Ayala, che abita lì). Il fatto è importante, perché contribuisce finalmente a smascherare una fantomatica organizzazione anonima che da tempo sostiene di trovarsi dietro i più grandi misteri italiani: la Falange Armata. In due telefonate alle redazioni dell’Ansa di Roma e Torino, la Falange Armata infatti «rivendica la responsabilità politica e la paternità morale di quanto accaduto in via Autonomia Siciliana, a Palermo, dove è stato ucciso il giudice Borsellino». Chi siano questi abilissimi depistatori non si saprà mai, mai ormai non interessa più.

Le indagini intanto puntano subito su un dettaglio. Borsellino non doveva trovarsi lì. Era giunto a prendere la madre a casa della sorella perché la visita dal cardiologo dell’anziana donna era slittata di un giorno. Ma chi poteva sapere del suo arrivo imprevisto? La squadra mobile “attenziona” un operaio dei telefoni che aveva svolto lavori nel palazzo di via D’Amelio e che potrebbe aver tentato una rudimentale intercettazione, certo Pietro Scotto, fratello di un boss dell’Arenella, Gaetano. Di certo, si pensa, si tratta di una strage compiuta da Cosa Nostra, a 57 giorni da quella di Capaci, in cui era morto Giovanni Falcone. Ma, ovviamente, la seconda domanda è: chi ha rubato e portato lì la 126? Cosa Nostra è in questo periodo l’organizzazione criminale più potente del mondo. Sicuramente gli assassini avranno cercato di cancellare il più possibile le loro tracce. Come si dimostrerà per la strage di Capaci, dove gli autori furono trovati in possesso di cellulari sofisticati che clonavano nientemeno che numeri non ancora in funzione. E dunque gli assassini saranno lontanissimi dai proprietari della 126 usata per uccidere, giusto? Invece no. Almeno non per gli inquirenti di allora.


LA FALSA PISTA

L’auto rubata appartiene a una donna, Pietrina Valenti. Il 20 settembre 1992, suo fratello Luciano si trova nel carcere di Bergamo per stupro: ed è lui ad autoaccusarsi del furto. Lui, il fratello detenuto della proprietaria dell’auto esplosiva. È surreale. Forse troppo. E infatti entra in scena il secondo uomo, Salvatore Candura, amico fraterno di Luciano. In galera con lui per lo stesso stupro: il 3 ottobre, negli uffici della Questura di Mantova, i due raccontano una nuova versione. Non è che Candura possa sottrarsi, perché Pietrina lo ha denunciato per il furto. I due dicono così che il ladro della macchina è il solo Candura. E che Valenti si era autoaccusato per salvarlo, dato che Candura era terrorizzato dal committente del reato, uno per il quale talvolta le auto le rubava: Vincenzo Scarantino. Candura ha dunque preso la 126 per conto proprio di Scarantino in cambio di 500.000 lire. Ma ha preso solo la prima tranche. Poi, unicamente insulti. Per delinearne lo spessore criminale, Valenti dice che «lo Scarantino io lo conosco solo di vista perché vendeva le sigarette di contrabbando in Piazza Guadagna». Ma c’è di peggio. Spiega Candura che, addirittura, «per intenderci, lo Scarantino… insie­me ad altri sono dediti allo spaccio degli stupefacenti». Scarantino gli ha fornito pure lo “spadino” per aprire l’automobile da rubare. Ma non nel suo quartiere, la Guadagna. «Nel mio quartiere – prosegue Candura – era impossibile rubare una macchina perché vigeva l’ordine tassativo degli Scarantino di non toccare niente. Se un ladro lì ruba una macchina prima o poi viene identificato e Vincenzo Scarantino o uno dei suoi fratelli quando sono fuori del carce­re o altresì un loro incaricato, lo massacra a legnate».

Cioè, in una terra che fa un morto al giorno, guerre di sangue ogni mese, in cui si spara ad ogni angolo di via, dove si ammazzano donne, preti e bambini senza ritegno, il pericoloso spacciatore Scarantino usa le “legnate”. Già che c’è, Candura (ma anche Valenti), mentre si sta infilando in una storia che ha a che fare con una strage, rinuncia a nominare un avvocato di fiducia. All’interrogatorio sono presenti il pm Carmelo Petralia, il capo della mobile Arnaldo La Barbera, il collega Vincenzo Ricciardi e il commissario capo Gioacchino Genchi, l’uomo che mesi dopo lascerà il gruppo d’indagine proprio perché non credeva affatto alla “pista Scarantino”. Arnaldo La Barbera è un poliziotto famoso, scafato, intelligente. È l’uomo che ha arrestato Totuccio Contorno nel cuore di Palermo mentre tutti pensavano che fosse negli Usa sotto protezione dell’Fbi. E La Barbera può davvero pensare che i Corleonesi, per un compito così delicato come l’organizzazione della strage di via D’Amelio, si affidino ad uno spacciatore di zona e a uno in galera per stupro che avrebbe rubato l’auto della sorella del suo più caro amico e “collega” di prigione? La risposta è sì. Lo pensa lui. E con lui i magistrati di Caltanissetta che indagano. Solo Ilda Boccassini, quando se ne andrà dal pool, lascerà un appunto nel quale spiega di non credere a Scarantino. Al momento, però, c’è enorme entusiasmo. «Abbiamo le prove contro Scarantino, arrestato per giusta causa, per ri­scontri oggettivi. Concorso in strage per via D’Amelio. E i punti di con­tatto con Capaci sono tali e tanti che, pur non potendolo provare ancora processualmente, lo ritengo un dato quasi acquisito» raccontava il Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra il 30 settembre 1992 al Corriere della Sera, ancor prima della nuova versione di Valenti e Candura. Non bastasse, anche un compagno di cella di Scarantino, Francesco Andriotta, lo accusa: «è lui». E sono tre.
 

LE FRASI DI CONTRADA
Lo spacciatore della Guadagna, insomma, lo conoscono tutti. Ha 27 anni quando viene arrestato. Giura subito di non sapere nulla. Ma nessuno gli crede: Candura e Valenti sono testimoni evidentemente granitici. Non basta. Siamo a settembre ’92. E qualcos’altro entra in gioco. Per capirlo bisogna leggere un’agenzia Ansa datata 25 novembre 1994. Riporta una dichiarazione in aula di Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde che fu arrestato alla vigilia di Natale del ’92, due mesi dopo che Scarantino era stato ammanettato. Per difendere il proprio operato, Contrada disse: «Realizzammo una sorta di schedatura degli esponenti della famiglia Madonia, cercammo di individuare l’officina dove l’ auto venne imbottita di tritolo. Accertammo anche rapporti tra Scarantino ed esponenti mafiosi». Quindi, buona parte del merito sulla pericolosità di Scarantino è suo. Certo, lo spacciatore è cognato di Salvatore Profeta, indicato al momento come boss di Santa Maria del Gesù (sarà anche lui condannato e uscirà poi per effetto delle dichiarazioni di Spatuzza).Ma pare un po’ poco. Soprattutto per uno come Contrada che, volenti o nolenti, era nel 1992 forse il poliziotto più famoso d’Italia, uno che, molto più di La Barbera, conosceva metodi e codici dei mafiosi per averli affrontati da vicino per anni. Si vede però che testi d’accusa come questi vanno presi in seria considerazione. Perfino da due segugi come La Barbera e Contrada.Vanno presi sul serio loro, l’apparentemente ridicolo spessore criminale di Scarantino. E, naturalmente, le sue confessioni.


DISCESA ALL’INFERNO

Già. Perché Scarantino, messo con le spalle al muro, crolla. Dice che sì, il furto l’ha commissionato lui. E fa i nomi di tutto il gruppo di fuoco. Un racconto articolato che parte proprio dal Gaetano Scotto già emerso nelle indagini della mobile come il fratello del presunto telefonista Pietro (Pietro sarà assolto, Gaetano condannato: ed è tra quelli finiti sotto processo di revisione). Sostiene sia stato proprio Gaetano Scotto a dire quando sarebbe arrivato Borsellino. Quindi fa i nomi di tutti gli autori della strage, arrestati uno dietro l’altro. Un trionfo per lo Stato. Solo che in aula i boss non lo riconoscono. Salvatore Cancemi, uno dei big, gli dice: «Chi sei?» Vien fuori che Scarantino è amante di alcuni transessuali, come Giuseppe Gagliani, alias “Giusy la sdilabbrata”: frequentazioni che un uomo d’onore non avrebbe mai. Ma la prima a non credergli è proprio sua moglie, che in una lettera a Silvia Tortora – figlia del presentatore Enzo, emblema delle vittime della malagiustizia – spiega come il marito abbia confessato dietro minaccia di essere impiccato, di inoculargli il virus dell’Aids e che abbia perso 50 kg prima di vuotare il sacco.

Sarebbe stato indottrinato. Poi, con la madre e la sorella di lui, la moglie si incatena, mentre il quartiere della Guadagna, dove Scarantino fa parte di una con­fraternita religiosa, organizza una marcia in sua difesa. Nessuno, lì, dà peso alle sue parole da grande pentito. D’altra parte l’ospedale militare di Chieti l’ha esonerato dal servizio di leva perché “neurolabile”. Ma per gli inquirenti, Scarantino è attendibile. Gli unici a non credergli sono quelli della Procura di Palermo, che non useranno mai la sua testimonianza in un processo. Non si fidano. A Caltanissetta, invece, Scarantino fa condannare un sacco di gente. Si becca 18 anni e finisce sotto protezione. A questo punto, non si sa perché, alza il tiro. Si autoaccusa di quattro omicidi. E nel 1994 punta il dito su Silvio Berlusconi e proprio su Bruno Contrada. Racconta l’Ansa che il 24 giugno di quell’anno, Scarantino, interrogato dai magistrati di Caltanissetta Giovanni Tinebra e Ilda Boccassini, avrebbe verbalizzato «di avere appreso dal boss Ignazio Pullarà che quest’ultimo “mandava cocaina a Berlusconi”». Quanto a Contrada, aveva saputo che era una “spia” di Cosa Nostra. La cosa non avrà seguito.


LA RITRATTAZIONE

Comunque, incastrato da tre testimoni e da un’informativa del Sisde che ne acclarava i rapporti con i mafiosi, reoconfesso e sotto protezione, Scarantino potrebbe campare a vita così. Anche perché ormai, qualsiasi cosa gli abbiano eventualmente fatto o detto, è un po’ difficile tornare indietro. Specie se fosse vero ciò che secondo la moglie gli avrebbero fatto. Significherebbe tuffarsi in un tunnel senza via d’uscita. Ma la coscienza lo morde. E nel 1998 ritratta. Urla che per costringerlo a confessare gli avrebbero dato il cibo coi vermi, e che «La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni». Grida che di mafia non sa niente e che «se muoio è per ordini superiori della squadra mobile di Napoli o Palermo. Io non ho intenzione di ammazzarmi… Ho tentato cinque volte di farmi arrestare, presentandomi nelle carceri di Venezia, Rebibbia, Vicenza e Savona, come latitante ma ogni volta ve­nivo convinto a rimanere collaborante. Oggi mi guardo allo specchio e dico che sono un infame, mentre prima avevo lo sguardo onesto. Sto subendo tante torture, anche quella di non farmi ricevere la posta da mia moglie, e non escludo che domani torni a collaborare per stare di nuovo meglio». Gli credono stavolta? No, anzi. Il pm Anna Palma, il 15 settembre 1998, commenta così le sue parole: «Non è la prima, né l’ultima ritrattazione. È però ancora una dimostra­zione di quanto Cosa Nostra sia forte e in grado di incidere su tutta la realtà italiana. Prima la mafia cercava di aggiustare i processi in un modo che avete visto dalle vicende mafiose degli ultimi anni, anche per via giudiziaria. Ora Cosa Nostra ha trovato un’altra strada, dimostran­do di sapersi adeguare ai cambiamenti».
 

LA RITRATTAZIONE DELLA RITRATTAZIONE
Vedendo che tutto è inutile, Scarantino ritratta così la ritrattazione. Siamo nel 2002. E per le sue frasi calunniose su La Barbera, si prende altri otto anni di prigione. E nuovi insulti dagli innocenti che ha fatto condannare. Ma si adegua, perché sa che nessuno gli darebbe retta. Né in polizia, né in Procura, né sui giornali. Oggi, dopo che il vero autore del furto della 126, il boss Spatuzza, ha riscritto ciò che accadde realmente, è venuto fuori che Scarantino aveva ragione: c’è stato un depistaggio e lui era un poveraccio qualsiasi che, come sapevano tutti fin dall’inizio, campava vendendo sigarette di contrabbando. E qualche dose. Il 28 settembre 2009 ha raccontato ancora ciò che invano aveva fatto anni prima e cioè ciò che gli avrebbero fatto per costringerlo a confessare: «Per non farmi mangiare, mi facevano trovare mosche nella pasta. Una volta a Pianosa sentì due guardie che parlavano… un tipo con i baffi, un brigadiere siciliano, diceva all’altro: “Piscia, piscia”. Una volta quel brigadiere mi alzò pure le mani. Un’altra volta, dopo che andai dal dentista, mi fecero credere che avevo l’Aids, mentre si trattava di una semplice epatite». Naturalmente, questa è la sua versione. Anche Spatuzza ha detto però di aver saputo che Scarantino fu pestato. E lo ha ricordato pure il suo terzo accusatore, l’ex compagno di cella Andriotta, che ha ammesso che le sue accuse gli furono suggerite dai poliziotti e che fu pagato tre volte per farlo. Tutto da verificare, s’intende. E infine, Candura ha affermato che La Barbera lo minacciava. E che fu lui a suggerirgli la tesi Scarantino. Vent’anni più tardi è però emerso, infine, un dettaglio nuovo: Arnaldo La Barbera lavorava anche per i servizi segreti con il nome in codice di Rutilius.


LE DOMANDE SENZA RISPOSTA

Ora, purtroppo La Barbera è morto. Ed è sempre pericoloso avventurarsi considerazioni in questi casi, anche sul mare di accuse che adesso gli sono state rivolte dai finti pentiti, che lo hanno presentato come il puparo dell’indagine, capace di manipolarli con promesse e minacce e di ingannare tutti i magistrati. Ma restano naturalmente alcune domande ad oggi senza risposta. La prima: com’è possibile che per vent’anni nessuno abbia saputo del ruolo nei servizi segreti di La Barbera? I servizi dovrebbero essere segreti per noi, non per chi li dovrebbe controllare. La seconda: esistono negli archivi dei servizi segreti carte, appunti, tracce su cosa faceva in quegli anni La Barbera, su chi frequentava, per capire perché sia stato utile farci sapere che lavorava all’epoca per i servizi? La terza: Contrada nel 1992 era il numero tre del Sisde. Almeno lui, sapeva del ruolo di La Barbera nei servizi? E se lo sapeva, perché non l’ha mai detto quando Spatuzza ha iniziato a parlare? O forse, ancora, non lo sapeva? La quarta: assodato che Scarantino era un falso pentito, perché nel 1994 alzò il tiro anche su Berlusconi e proprio su Bruno Contrada? Che motivo aveva per farlo? La quinta e più importante: se fosse vero ciò che hanno combinato a Scarantino per convincerlo a confessare il falso, chi di noi potrebbe giurare che avrebbe agito in maniera diversa da lui?


ANCORA IN GALERA?

Dunque, riassumiamo la vicenda. C’è un innocente “neurolabile” che un giorno viene accusato da tre detenuti di essere il committente del furto di un’auto usata per la strage. L’uomo confessa il falso. Anzi, va oltre, alzando il tiro su Berlusconi e Contrada. Ma poi l’uomo, che potrebbe benissimo campare ormai in pace sotto protezione, ritratta. Spacciatore, neurolabile, tutto quello che vi pare, l’uomo nel 1998 ha un rigurgito di una cosa estremamente rara in Italia: la coscienza. Non ce la fa a lasciar dentro altri innocenti. E sfidando tutto e tutti, mettendo a repentaglio l’intero suo futuro e la vita, dice di essersi inventato ogni cosa. Dice anche perché lo avrebbe fatto. Non per protagonismo o mitomania, no. Descrive sevizie che avrebbe subito degne di Guantanamo, ma nessuno indaga. Nessuno gli crede. Di più, si becca una nuova condanna, per calunnia. Ma quattordici anni più tardi, assodato che davvero si inventò tutto, che ci sia stato un depistaggio doloso o involontario, lo vogliamo dire che è improbabile che un innocente confessi di aver partecipato all’organizzazione di una strage senza, come dire, qualche pressione? Vogliamo considerare che non è fuori dal mondo che queste pressioni siano state un po’ forti dato che perse decine di chili e dato che anche altri lo hanno testimoniato? Vogliamo ipotizzare che forse, incastrato da tre detenuti e pressato, Scarantino potrebbe essere stata soprattutto una vittima? O no? Dobbiamo continuare a illuderci di vedere il mondo diviso in mafia e antimafia, in buoni e cattivi, in eroi contro banditi, o vogliamo ricordarlo che forse ci troviamo davanti ad un uomo totalmente devastato dallo Stato?

In un Paese normale ci si aspetta in questi casi un’indagine approfondita sulle carceri, una commissione parlamentare, una rivolta mediatica, per far accertare se anche una sola delle sevizie narrate da Scarantino e subite in galera sia vera. E che qualcuno, tra chi indagò, dica qualcosa. Su di lui e sulle sette persone finite dentro ingiustamente. Perché, per essere molto franchi, sette persone alcune dentro come definitive per quasi vent’anni al carcere duro, rappresentano di gran lunga il più grave e clamorso errore giudiziario dell’interno mondo occidentale. Nel recente libro “Assedio alla toga” scritto con Loris Mazzetti, il pm Nino Di Matteo, tra i magistrati che contarono sulla collaborazione di Scarantino al processo sulla strage e che adesso, a Palermo, indaga sulla trattativa Stato-Mafia, la vede così: «Senza entrare nel merito di vicende processuali di cui si stanno occupan­do i colleghi di Caltanissetta, devo però ristabi­lire alcune verità. Purtroppo è passata un’errata semplificazione giornalistica secondo la quale per via D’Amelio «si ricomincia da zero». È stato raccontato che tutti i processi celebrati nei con­fronti di oltre trenta imputati sono stati comple­tamente viziati da un possibile depistaggio o da un clamoroso errore giudiziario. Non è proprio così: la richiesta di revisione ha riguardato sette imputati, mentre rimangono assolutamente in­tatte e indiscutibili numerosissime altre condan­ne all’ergastolo di esecutori e mandanti mafiosi, consacrate nel processo Via D’Amelio-ter (in cui ero pubblico ministero) e, in parte, anche nel pre­cedente dibattimento definito “processo-bis”». E aggiunge, sulle nuove indagini su via D’Amelio: «Non è un caso che nei confronti di uno dei collaboratori più recenti, Gaspare Spatuzza, inizialmente i giornali, l’opinione pubblica e per­sino autorevoli esponenti politici della maggio­ranza avevano sostenuto l’importanza delle sue dichiarazioni, fino a quando non si è scoperto che Spatuzza stava raccontando di avere saputo dai boss Filippo e Giuseppe Graviano di loro rapporti con Dell’Utri e tramite quest’ultimo con Berlusco­ni. In quel preciso momento è scattato il solito e collaudato meccanismo mediatico. Per noi addet­ti ai lavori ridicolo e ininfluente sulle valutazioni processuali, per l’opinione pubblica, invece, diso­rientante».
 

E chiude il libro con una lettera a Paolo Borsellino:  «… Da giovane e ine­sperto magistrato avrò forse commesso alcuni er­rori ma ho sempre dato tutto per cercare insieme ai miei colleghi la verità. Sono orgoglioso che anco­ra oggi decine di condanne definitive all’ergastolo che ho chiesto e ottenuto nei confronti di esecutori mafiosi della strage non vengano neppure messe in discussione. Sono soprattutto orgoglioso perché quelle sentenze, grazie anche al mio piccolo contri­buto, attestano – sulla base di concrete acquisizio­ni – che la tua morte è stata probabilmente voluta, di certo aiutata da altri estranei all’area militare di Cosa nostra. Quelle sentenze, quel lavoro di tanti oscuri magistrati, spesso giovani e inesperti, costi­tuiscono ancora la base delle indagini più attuali a Caltanissetta e a Palermo. In tanti, giudice Borselli­no, vorrebbero definitivamente chiudere quel capi­tolo. Non si illudano». In tutto il libro il nome di Scarantino non è citato nemmeno una volta.


LE PAROLE DI GAETANO MURANA

Oggi finalmente Scarantino non è più il pericoloso boss di via D’Amelio. Ma che cos’è diventato? Per tutti è un pupazzo, un depistatore o al massimo, un uomo da dimenticare. Nessuno, nemmeno tra i media, pare sfiorato dal dubbio che, se davvero Scarantino è stato torturato, merita solo delle enormi, dannate, lunghissime scuse. E non certo altri atti d’accusa. No, evidentemente non lo pensa nessuno: sui giornali hanno infatti ipotizzato tranquillamente che, con la prossima conclusione delle nuove indagini sulla strage, Scarantino possa finire ancora dietro le sbarre per le calunnie che mandarono in galera degli innocenti. Non ha pace. Ancora lui. Sempre lui, capace, ci hanno costretto a credere, di ingannare tutti. O quasi. L’unico a esprimersi diversamente su Scarantino non è un’autorità politica, giudiziaria o religiosa. Non è un eroe dell’antimafia né un rappresentante dei diritti civili.

È semplicemente un uomo che trasuda dignità, resistita a decenni di buio in cella. Si chiama Gaetano Murana. Operatore ecologico, fu fermato all’alba di una mattina dalle forze dell’ordine e rimase in galera per quasi 18 anni al 41 bis, una forma di carcere duro per il quale la Corte per i diritti dell’Uomo di Strasburgo ci ha condannato invano plurime volte. E sul quale nessuno dice niente (anzi, guai a toccarlo) perché tanto, si pensa, non tocca mai a noi: invece è toccato all’innocente Murana, che a Servizio Pubblico ha parlato del trattamento disumano patito. Di minestre servite col profilattico dentro, di figli neonati che andavano a trovarli e che finivano seviziati nei controlli, di detenuti torturati pure sui genitali e costretti a stare nudi d’inverno con le finestre aperte. Non in Cile, non a Cuba, non nella Turchia di Fuga di Mezzanotte. No, qui, in Italia, ogni maledetto giorno dell’anno. E Murana, appunto, era innocente. Finì dentro proprio per le dichiarazioni di Scarantino, perché, dirà vent’anni più tardi lo spacciatore della Guadagna, Murana gli stava antipatico e non gli dava confidenza. Ma quando il giornalista gli ha chiesto cosa direbbe oggi a Scarantino, Murana non ha parlato di infamia, non ha schiumato rabbia e rancore. No, Murana, una vita rubata nell’inferno del 41bis, ha risposto così: «Gli offrirei un caffè. È stata una vittima come me».



Edoardo Montolli - Giornalista e scrittore. Ha scritto delle stragi del ’92 e ’93 nel libro Il caso Genchi (Aliberti, 2009), fonte www.lindipendenza.com

























 

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