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Scritto da Giancarlo De Cataldo   
Mercoledì 27 Agosto 2008 10:24
Quest’estate, mentre mi avventuravo lungo una di quelle sterminate autostrade americane immortalate da milioni di fotogrammi hollywoodiani, mi sono imbattuto in una lunga teoria di manifesti elettorali.

Facce abbronzate o glabre, nere o tipicamente Wasp, profili di predicatori dai capelli cotonati, signore executive in austeri tailleur di taglio europeo si alternavano a pubblicità di casinò del vicino Nevada e rivenditori di automobili usate.
Sfilavano sorrisi da ragazza della porta accanto e cipigli da severi Savonarola, mentre sintetici slogan informavano gli elettori che se mr. Brown promette «legge e ordine», Miss Green assicura alla sua contea un futuro di «prosperità nella sicurezza». L’enorme cassiera di una vicina stazione di servizio, alla quale chiedevo informazioni, ignorava di che elezioni si trattasse. Un cliente più acculturato, un nero dal fisico alla Denzel Washington, mi ha spiegato che in quello Stato vige il sistema del giudice elettivo. Di lì a pochi giorni si sarebbero assegnati un seggio di Procuratore Distrettuale della contea e uno di giudice alla Corte Suprema dello Stato. Mi è venuto naturale pensare al recente dibattito di casa nostra. Ho immaginato i miei colleghi - me stesso - alle prese con una competizione elettorale. Un’elezione è fondamentalmente un fatto di consenso. E il consenso un affare di immagine e di propaganda. Mi si sono affacciate alla mente scene da commedia all’italiana... Grintosi pubblici ministeri e anziani giudicanti alle prese con l’angoscioso problema del «look»: andrà bene il capello «phonato»? Meglio tenere la barba incolta, che fa sinistra impegnata, ovvero optare per una radicale rasatura, con annesso effetto di italica, virile mascella? Per le candidate: meglio pantaloni o gonna? E quest’ultima, sopra o sotto il ginocchio? Senza un serio consulente all’immagine, ho concluso, per molti di noi presentarsi in pubblico sarebbe un suicidio. Particolarmente svantaggiati i non pochi meridionali che affollano la corporazione. Per concorrere, con qualche possibilità di successo, in quel microcosmo immaginario che qualcuno definisce «Padania», bisognerà nascondere, o sfumare, l’origine. Un siciliano che parlasse con il rotondo e musicale accento di Borsellino non avrebbe nessuna chance a Treviso. Si dovranno prendere lezioni di dizione. E le idee? Va bene che da un po’ di tempo hanno perso importanza, ma, insomma, un candidato deve pure avere un embrione di programma elettorale. Un programma giudiziario elettorale. I programmi elettorali si possono predeterminare sulla base di sondaggi che individuino le aspettative del corpo elettorale interessato (certi grandi studi legali già lo fanno da tempo, studiando la strategia più adatta a persuadere le giurie popolari): meno esteso è questo corpo, maggiori saranno le probabilità di «azzeccarci». Occorrerà dunque commissionare una ricerca di mercato, ingaggiando all’uopo un esperto nel ramo. Una volta chiarito che cosa si potrà dire e che cosa sarà meglio tacere (sicurezza e tolleranza zero sì, aborto e omosessuali meglio sorvolare) si dovranno studiare gli idonei mezzi per informare i votanti: manifesti e cartelli, appunto, ma anche spot, apparizioni televisive, paginoni sui giornali, comizi, incontri con i maggiorenti della comunità. Politica, insomma. Politica allo stato puro: singolarmente, l’opzione del giudice elettivo parte dallo schieramento che da ormai vent’anni lamenta la «politicizzazione» della magistratura. Ma la considerazione finale - e qui il sorriso si spegne e si fa strada una certa inquietudine - è un’altra. Una campagna elettorale ha dei costi, e non indifferenti. Impossibile pensare di affrontarli contando sul proprio stipendio, per quanto alto. Ed anche gli avvocati di maggior prestigio si troverebbero a disagio se dovessero affrontare, da soli, spese così ingenti. Chi pagherebbe, dunque, la campagna elettorale dell’aspirante PM, del futuro giudice? Risposta ovvia: i partiti politici, da un lato, e, dall’altro, tutti coloro - associazioni, gruppi di pressione, network imprenditoriali, privati - che abbiano, in qualunque modo, interesse alla scelta dell’uno o dell’altro candidato. Sarebbe la consacrazione del conflitto d’interessi, il definitivo pensionamento dell’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge, la trasformazione del primato della legge (sancito dalla Costituzione del ’48) in un’ennesima branca dell’economia di mercato.
Preoccupazioni apocalittiche? Mica tanto, se vogliamo prestare fede a un profondo conoscitore del sistema, lo scrittore (e avvocato) John Grisham, che al tema del giudice elettivo ha dedicato Ultima sentenza, il suo più recente best-seller. Questa la storia, semplice ed emblematica al contempo: uno spregevole riccastro possiede una fabbrica che avvelena da anni le acque di un paesino. Dopo innumerevoli casi di cancro e leucemia, passati sotto silenzio da autorità conniventi o corrotte, una coraggiosa coppia di avvocati intenta un’azione civile e la vince. Condannato a pagare un risarcimento enorme, il nababbo decide, contro il parere generale, di ricorrere in appello. Tutti gli danno del pazzo, ma l’uomo, al contrario, è un mostro di lucidità. Il fatto è che fra poco ci saranno le elezioni. In ballo il seggio di una giudice liberal: basterà sostituirla con un uomo di fiducia, e la maggioranza dell’appello cambierà. Costo dell’affare - mirabilmente gestito da un problem solver con conti esterovestiti e ottimi agganci nell’establishment - svariati milioni di dollari. Un’enormità per la gente comune, un’inezia per un grande capitalista. Alla fine, capolavoro del consenso popolare, persino gli avvelenati voteranno in massa per l’avvelenatore: felici di continuare a bere l’acqua mortale e convinti - poveri illusi - di aver democraticamente deciso del proprio futuro.
 
Giancarlo De Cataldo
 
In L’Unità, 27 agosto 2008
 




 


 
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