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Salvatore Borsellino, rabbia e lavoro: 'I giovani contro la mafia moderna' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Roberto Santilli   
Mercoledì 07 Novembre 2012 14:21

ABRUZZOWEB INTERVISTA IL FRATELLO DI PAOLO, UCCISO VENT'ANNI FA. ''SI VUOLE IMPEDIRE AL PROCESSO SULLA TRATTATIVA DI ANDARE AVANTI''


L'AQUILA - Le stragi hanno contribuito a cambiare il corso degli eventi in Italia. Oggi, l’assenza di quelle persone che non vollero inchinarsi alla violenza pesa come un macigno, così come pesa il silenzio di chi delle stragi conosce i veri mandanti e i responsabili materiali.

Vent’anni fa, la primavera e l’estate italiane furono prese al collo e strangolate dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In un paio di mesi, fra il maggio e il luglio 1992, il tritolo spazzò via i due magistrati. La mafia siciliana, l’anti-Stato che con alcuni pezzi dello Stato aveva sempre avuto confidenza, tolse di mezzo i due maggiori intralci verso un paradiso di affari in continua espansione anche grazie alla svolta epocale della caduta del Muro di Berlino, con tutti gli effetti politici ed economici che essa rappresentò su scala globale.

Falcone e Borsellino agirono in prima fila contro la mafia e per aver osato guardarla negli occhi restarono soli. E soli morirono. La mafia, concetto da allargare, da espandere per arrivare a riconoscere il corpo di un’ombra, al contrario, li uccise da lontano. Evitando di guardarli negli occhi.

Novembre 2012. Vent'anni dopo, Salvatore Borsellino ha lo stesso sguardo di suo fratello. E se involontariamente lo si chiama con il nome di Paolo, il fratello maggiore, il fratello che non c’è più, la voce si riempie di un dolce orgoglio, quasi volesse sciogliersi con fierezza e sorridere con la schiena dritta al destino per non dargliela vinta.

Dal suo studio di Milano, immerso nel lavoro da ingegnere e da custode della memoria lasciato in eredità dalla morte di Paolo, Salvatore Borsellino risponde alle domande di AbruzzoWeb e coglie l’ennesima occasione per rimettere insieme i pezzi del mosaico della sua e della nostra storia recente, la stessa che ha 'figliato' una grossa parte dell'Italia che viviamo oggi.

Dalle stragi di Capaci e via D’Amelio al 2012 passano due decenni di lacrime, di dolore, di bugie, di depistaggi, di un’agenda rossa sparita "per magia" dall’automobile del magistrato annerita e contorta dalle fiamme subito dopo l'esplosione che lo aveva ammazzato. Due decenni di mafiosi sbattuti in cella, di scandali, di uomini delle istituzioni legali e illegali che sanno ma preferiscono tacere, di giovani che chiedono a gran voce la verità sul un capitolo decisivo della storia italiana. A cominciare proprio dalla seconda Repubblica “fondata sul sangue”.

“Non sono gli errori a cui non si può più rimediare che mi tolgono il respiro - spiega a questo giornale - Le stragi sono state compiute per cambiare gli equilibri del Paese, soprattutto l'attentato di via D'Amelio (nel quale morirono il caposcorta Agostino Catalano e gli agenti Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta e a morire in servizio, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, ndr). Credo sia stata una delle tante stragi di Stato in un momento critico dell'Italia, quando si doveva cambiare qualcosa nel sistema di potere. L'Italia travolta dalle stragi del ’92 non è più stata la stessa di prima, è cambiata notevolmente, diventando schiava della dittatura mediatica. Dopo due decenni, ho la sensazione che si stia passando a un altro assetto. Il potere è di nuovo in aggiornamento".

"La seconda Repubblica, ne sono convinto, è fondata sul sangue - ripete - Non solo per la strage di via D'Amelio, ma anche per quelle successive, necessarie alla chiusura della trattativa che portò alla morte di Paolo. La mafia decise di farlo fuori, è vero, ma ucciderlo così presto non conveniva alla mafia stessa. Qualcosa, qualcuno, accelerò la decisione. Alla mafia venne chiesto di spingere, come avvenne poi per la strage di via dei Georgofili. In Italia, insomma, abbiamo uno Stato, lo Stato di Diritto, che è connesso alla criminalità organizzata. E se si intavola una trattativa con un settore di questo tipo, non ci si deve stupire di nulla".

Come considera oggi, ricordando quel periodo terribile, il quadro complessivo dell’assassinio di suo fratello?

Mi viene in mente la fase precedente, i 57 giorni tra la morte di Giovanni e quella di Paolo. Tutti, compresa la mia famiglia, sapevamo che Paolo era condannato a morte. Lo sapeva l'opinione pubblica, lo sapeva lo Stato che non solo non lo ha protetto, ma ha anche verosimilmente partecipato alla strage di via D’Amelio. Paolo non faceva altro che ripetere “devo fare in fretta”, era cosciente del fatto che non gli avrebbero lasciato tanto tempo. Eppure, non ci aspettavamo che sarebbe successo così presto. Dopo la sua morte, i criminali e i mafiosi furono portati all'Asinara, ci fu una reazione forte della parte sana dello Stato e dell'opinione pubblica. Ancora oggi ricordo con nitidezza i funerali di Paolo a Palermo e la gente che ai funerali degli agenti di scorta superò un cordone di 5 mila poliziotti fatti venire apposta da fuori della Sicilia. Ricordo i palermitani, abituati da secoli a dominazioni di ogni tipo a chinare la testa, cacciare con veemenza gli avvoltoi che si litigavano le panche della prima fila nella cattedrale per poter essere meglio ripresi dalla televisione. Fu un periodo vissuto con esaltazione, credevo che la morte di Paolo riuscisse a completare un percorso che aveva portato alla condanna all'ergastolo di tutta la cupola mafiosa. Iniziai a girare l'Italia per obbedire, così come mia sorella Rita, a mia madre, che ci chiese di tenere accesa la speranza, e per parlare del sogno di Paolo. Poi mi accorsi dello spegnersi della reazione della coscienza civile alla morte di mio fratello. Lo sconforto, allora, prese il sopravvento.

A quel punto cosa ha fatto?

Per dieci anni sono rimasto in silenzio. Quando ho ricominciato a parlare, l’ho fatto per rabbia. Tutto era peggiorato, in realtà. Le stragi di Capaci, di via D’Amelio, via dei Georgofili e via Palestro avviarono un processo che aveva lo scopo di sprofondare il nostro Paese in una dittatura. La mafia, in sostanza, aveva vinto insieme a un pezzo dello Stato. Negli ultimi cinque anni ho scelto di tornare a parlare, sempre spinto dalla rabbia, ma poi a poco a poco, grazie ai giovani, mi sono reso conto di possedere ancora una speranza. Paolo scrisse dell’importanza dei giovani nella sua ultima lettera, che trovammo, incompiuta, sul suo tavolo dopo la morte. I giovani, diceva, avrebbero avuto più forza di combattere rispetto alle nostre generazioni. Paolo, è vero, non c’è più, sapevamo che lo avrebbero ucciso e lui stesso ne fu certo quando seppe che era arrivato a Palermo il carico di esplosivo che sarebbe servito per il suo attentato. Ma il suo messaggio è ancora vivo, così come la sua lotta, nonostante la verità sulla sua morte deve ancora venire alla luce e il cammino della Giustizia non si è ancora compiuto. Io, come Paolo, ho speranza nei giovani. E ho scelto di lottare insieme a loro.

Il lavoro portato avanti da Falcone e Borsellino per scardinare un sistema di potere mafioso coincise con un momento epocale nella storia d’Europa e del mondo, non solo d’Italia. Se si guarda a quegli anni con qualche informazione in più sottomano, viene fuori un quadro che non si limita certo alla mafia regionale dei mafiosi siciliani legati ai politici.

Sicuramente, un processo che era già avviato allora a livello europeo se non mondiale fece sì che nascesse una strategia per avviare anche in Italia un sistema di potere dipendente anche da settori extranazionali. In qualche maniera, si doveva traghettare l’Italia da un sistema di potere a un altro. Non scordiamo che si stava sgretolando una intera classe politica a causa dello scandalo di Tangentopoli, e io credo che qualche elemento sovranazionale abbia certamente influito. Ha accelerato, senza dubbio, il processo di cambiamento nelle sfere di potere italiane.

Borsellino e Falcone combatterono la mafia con la consapevolezza di avere a che fare con un fatto umano, quindi destinato a morire in un modo o nell’altro. Al contrario, la mafia moderna e sovranazionale sembra in grado di ripetersi, di rinnovarsi e di evitare il collasso. Si può affermare con certezza che la mafia moderna ha compiuto un definitivo salto di qualità, agisce ormai da un mondo irreale che noi quaggiù non riusciamo neppure a immaginare.

La mafia come tipologia di associazione criminale, come fenomeno nato e sviluppatosi nelle regioni del Sud del nostro Paese è un fenomeno umano, è verissimo. Ma è anche vero che oggi le cose sono cambiate. Se ci fosse stata una reale volontà, la mafia avrebbe già potuto essere sconfitta. Il vero problema non è sconfiggere la parte militare della mafia, la sua mano armata, ma passare al livello successivo. Il prefetto Cesare Mori, una volta sconfitta la mafia armata, una volta assediati letteralmente alcuni paesi della Sicilia e snidati e catturati i latitanti, volle passare al livello successivo e colpire le complicità e le connivenze a livello politico e istituzionale e per questo venne esautorato e mandato a ricoprire altri incarichi. Oggi il problema è ancora più complesso perché la mafia, e soprattutto la ‘ndrangheta che dopo le straigi del '92 e del ’93 ha assunto il predominio nella gestione degli affari criminali, si sono globalizzate. E lo hanno fatto molto prima che si globalizzassero le industrie italiane. Oggi mafia vuol dire finanza, business di altissimo livello, esiste una enorme zona grigia intorno ad essa ed è difficilissimo sconfiggerla. Per Paolo e Giovanni sarebbe ancora più difficile oggi contrastare questa nuova evoluzione della mafia moderna. Penso alla cementificazione della costa spagnola, avvenuta grazie agli enormi capitali mafiosi. Un business incredibile che va al di là dei confini regionali. E più si sale di livello, più aumentano le difficoltà nel tentare di sconfiggere il fenomeno criminale. Per farlo occorrono strumenti globali che non possediamo, purtroppo. La finanza ha preso possesso dell’Europa, quindi anche dell'Italia, dove c’è un governo che non ha intenzione di salvare il Paese, ma solo le banche e la finanza da cui esso dipende. Ovviamente, a spese dei cittadini. Già quando Paolo lavorava al maxi processo diceva che la mafia che stavano processando era una vecchia mafia, non quella moderna già cambiata radicalmente.

Gli italiani che hanno vissuto la strage di D’Amelio ricordano dove si trovavano quando i telegiornali comunicarono la notizia. Lei dov’era quando arrivò la notizia della morte di Paolo?

A casa mia, qui a Milano. Lavoravo al computer. Mi chiamò mia moglie, “corri, stanno dicendo di un attentato a Palermo”. Non ebbi neanche bisogno di andare davanti al televisore, avevo già capito. Era mio fratello. Per tanto tempo, le date dei file ai quali stavo lavorando in quel momento sul computer rimasero fissate sulla data del 19 luglio 1992. Non ebbi voglia di sedermi a quel computer per molto tempo.

Da quel giorno, lei di lavori ne ha due.

Sì, ho due lavori. Uno è quello di ingegnere, la mia professione per vivere; l’altro, il lavoro di difesa del sacrificio di mio fratello, per non morire. Da qualche anno si è formato in maniera spontanea, intorno alla mia lotta, il movimento delle Agende Rosse, gente giovane o ancora giovane dentro che combatte per la giustizia e la verità. Un movimento che mi rende orgoglioso.

E che prende il nome dall’agenda rossa che non si trova più, trafugata dalla macchina di Paolo Borsellino a cadavere ancora caldo.

Uccidere Paolo senza fare sparire quell'agenda sarebbe stato inutile. Nelle annotazioni sull’agenda rossa ci saranno sicuramente anche stati i particolari della trattativa Stato-mafia di cui Paolo era venuto a conoscenza. Il primo luglio del 1992 incontrò Nicola Mancino al Viminale, al ministero dell’Interno a presiedere il quale proprio Mancino era stato frettolosamente chiamato al posto di Vincenzo Scotti. Nell’agenda rossa Paolo avrà sicuramente annotato anche il resoconto di quella riunione, oltre agli appunti delle indagini sull’assassinio di Falcone. Giovanni morì in ospedale tra le braccia di mio fratello e fece forse in tempo a rivolgergli le sue ultime parole, sicuramente i suoi ultimi sguardi. Nell’ultima uscita pubblica, Paolo disse chiaramente che si aspettava di essere chiamato dalla procura della Repubblica di Caltanissetta come testimone per parlare di ciò che sapeva sulla strage di Capaci. La telefonata non arrivò mai. Arrivò invece il tritolo, che servì forse anche a impedirgli di andare a testimoniare. In questo contesto, l’agenda rossa non avrebbe potuto sopravvivere a Paolo. Doveva sparire insieme a lui.

A che punto è secondo lei la comprensione della trattativa fra Stato e Mafia?

Per vent'anni c'è stata una vera e propria congiura del silenzio che ha coinvolto anche i piani più alti delle istituzioni. Ancora oggi si parla di una ‘presunta’ trattativa, si vuole impedire che vada avanti il processo a Palermo. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è intervenuto in maniera a dir poco scomposta sulla questione delle intercettazioni, ponendo un serio ostacolo sul futuro di questo processo.

Perché?

Perché i responsabili della congiura del silenzio, se il processo va avanti, vengono fuori. Mi prendevano per pazzo quando scrivevo della trattativa, mi accusavano di essere una persona malata, farneticante, mi dicevano che parlavo a causa del dolore. Io parlavo per rabbia, non per dolore. Io non mi faccio condizionare dal dolore, sono ben altri i sentimenti che mi spingono a parlare. Credo che la congiura del silenzio piano piano verrà distrutta, qualcuno ha cominciato a parlare, dal pentito Gaspare Spatuzza a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo. Se tutto questo fosse venuto a galla vent'anni fa, se fosse venuta fuori un'agenda sulla quale c'era scritto che lo Stato stava trattando con l'anti-Stato, forse ci troveremmo di fronte a una storia completamente diversa. Invece, dobbiamo faticare ancora molto per arrivare alla verità. Purtroppo, il processo e le indagini sulla sparizione di quell'agenda sono state bloccate, non c'è stata nessuna fase pubblica del processo, il tenente colonnello Giovanni Arcangioli, fotografato con la borsa di Paolo in mano in via D’Amelio quando era capitano, è stato addirittura prosciolto senza che si arrivasse alla fase dibattimentale del processo. Per non parlare del ruolo del giudice Giuseppe Ayala.

L'ex pubblico ministero del primo maxiprocesso oggi è consigliere presso la Corte d'Appello dell'Aquila.

È uno che va in giro a fare spettacoli a pagamento nei quali mercifica il ricordo di Falcone e Borsellino, è lo stesso Ayala che fece forzare il portello della macchina in via D’Amelio per consegnare i documenti a qualcuno non identificato. Queste cose dovrebbe essere discusse a processo e davanti all'opinione pubblica. I ragazzi del movimento, ogni volta che se ne presenta l’occasione, vanno da Ayala a riproporre le dieci domande alle quali non ha mai risposto. Ayala mi ha dato del malato mentale, mi ha definito ‘Caino’, ma mio fratello non l’ho ucciso io. Come è possibile permettere uno spettacolo così indecente? Perché il Consiglio superiore della magistratura non interviene a fronte di un magistrato in servizio che tiene spettacoli a pagamento?

La magistratura lasciò solo suo fratello anche quando era vivo.

La magistratura lasciò soli Falcone e Borsellino. Di Falcone si arrivò ad affermare che si era preparato dal solo l’attentato all’Addaura, e sempre a Falcone fu impedito di prendere il posto di Antonino Caponnetto alla guida del pool antimafia. Dovette addirittura inventarsi un altro lavoro al ministero di Grazia e Giustizia. Paolo fu sottoposto a un provvedimento disciplinare per un’intervista al quotidiano la Repubblica in cui disse che stavano distruggendo il pool antimafia, e venne anche accusato di essere un professionista dell’antimafia, cioè di sfruttare il suo impegno contro la mafia per fare carriera. Non è cambiato nulla, perché oggi viene attaccato chi si definisce partigiano delle istituzioni, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo vengono attaccati sia dal Csm che dai media, lo stesso Ingroia è stato indotto a lasciare il suo posto per andare a lavorare in Guatemala, anche se ufficialmente è stata una sua scelta. Ma avrebbe fatto la stessa scelta se non fosse stato sottoposto a questi attacchi? In realtà, se gli avessero lasciato la possibilità di lavorare, non se ne sarebbe andato. “Non ci permettono di andare avanti”, mi ha confidato Ingroia tempo fa, a Palermo.

Crede che il processo sulla trattativa Stato-mafia andrà avanti senza intoppi?

No, ma mi costituirò parte civile. E insieme a me si costituirà anche il movimento delle Agende Rosse. Anche se so che quel processo non lo faranno andare avanti. Eppure, nonostante tutto, mi accorgo che tanti giovani italiani hanno una consapevolezza addirittura superiore a quella di molti adulti, sembra quasi che vogliano operare una rimozione di quanto successo nel '92. L’ex premier Silvio Berlusconi accusò le procure di Palermo di indagare su “vecchie storie”. Berlusconi, infatti, è lo specchio di tanti italiani. In troppi non hanno capito, o fanno finta di non capire, l’importanza di quelle “vecchie storie” per l’Italia, l’Italia incapace di crescere che prima annuncia a gran voce di volere combattere la corruzione e poi svuota il decreto legge che avrebbe dovuto combatterla. Da Berlusconi a Mario Monti, è stato questo il progresso?

Ma l’Italia non doveva tornare a prosperare con la caduta di Berlusconi?

L’anno scorso, mentre Monti si insediava, ho provato sensazioni già provate in passato. Berlusconi si era reso impresentabile, impopolare, e con l’economia italiana in dissesto servivano figure dalla faccia pulita che imponessero al Paese strade che l’ex premier non poteva percorrere. Io dissi allora che mi sentivo in una condizione simile a quella del ‘92, quando l’odore di strage era nell’aria, quando, dopo ‘mani pulite’, il precedente sistema si era sgretolato e si stava cercando una nuova piattaforma di equilibrio. Allora furono le stragi del ’92 e del ’93 a essere funzionali a questo passaggio. Oggi la stessa cosa è avvenuta senza stragi. In questo senso, sono stati compiuti passi avanti, non c’è che dire. Il sistema di potere ha trovato mezzi diversi per eliminare dalla scena i magistrati come Clementina Forleo e Luigi De Magistris. Quest’ultimo ha dovuto anche trovare un nuovo campo di battaglia, lasciando la toga e dedicandosi alla politica. E se entriamo nel campo della giustizia, le cose sono addirittura peggiorate, visti i tempi di prescrizione ridotti e le nuove regole che faranno saltare parecchi processi, compresi quelli a Berlusconi. Si può quasi dire che il governo Monti stia facendo peggio di lui. E la gente quasi ringrazia.

Qualcuno ha iniziato a prendersela con l’Europa delle banche e della mafia finanziaria di cui parla lei. Monti lo ha imposto l’Europa sbagliata, probabilmente.

Non si può tornare indietro e cancellare l’Europa. Dobbiamo lavorare insieme per un’Europa migliore, dove non sia tutto in mani ai poteri finanziari sovranazionali che ci stanno distruggendo. E le spinte secessioniste non risolvono il problema.

Capitolo L’Aquila. Si è spesso usato il terremoto del 2009 per spiegare l’Italia che funziona e l’Italia che si sporca per fare soldi e sfruttare le tragedie.

Ho avuto un senso di disgusto nel leggere certe notizie. Il disastro dell'Aquila è ancora una ghiotta occasione per poter dare la stura al sistema corrotto che ha sempre goduto alle disgrazie altrui, come in Sicilia, o in Irpinia. Credo che l'espressione peggiore del nostro Paese sia rappresentata dall’imprenditore che rideva mentre tanta gente all’Aquila moriva (Francesco Piscicelli, ndr). In effetti, per alcuni le calamità naturali sono diventate una vera e propria manna. Fate attenzione alla ricostruzione, pensate sempre ai palazzi crollati perché costruiti senza tenere conto della sicurezza. La Casa dello studente è crollata perché costruita male, il terremoto non l’avrebbe buttata a terra ammazzando quei poveri giovani. Ho visto che hanno costruito città fasulle, le new town, che snaturano completamente il sistema di una città. Napolitano ha parlato proclamando la sua contrarietà a quanto è stato fatto. Ma voi aquilani avete bisogno di fatti, non di parole.

Si è mai sentito stanco da quando suo fratello non c’è più?

Durante i miei dieci anni di silenzio mi sono sentito morto dentro, non stanco. Un'esperienza che non ripeterò mai più. Da quando ho cominciato a parlare, la rabbia e la speranza mi tengono in piedi. La rabbia che ho dentro non mi annebbia gli occhi, non mi permette di farmi sentire la stanchezza. In pratica, mi affido a due droghe: il lavoro e la rabbia. Lo devo a mio fratello, a Giovanni Falcone, agli uomini e alle donne della scorta, alle famiglie che hanno patito la brutalità criminale della mafia. Lo devo all’Italia per cui è morto Paolo Borsellino. Mio fratello Paolo Borsellino.


Roberto Santilli (abruzzoweb.it, 7 novembre 2012)
















 

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