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Disposizioni ministeriali sull´Educazione alla legalità finalizzata alla lotta alla mafia PDF Stampa E-mail
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Scritto da Enzo Guidotto   
Mercoledì 17 Settembre 2008 13:55
Istruzioni per l'uso
Il 23 maggio 2007, in occasione della manifestazione organizzata dalla Fondazione Falcone in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione sul tema «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: la loro lezione di libertà e di democrazia», il Ministro Fioroni ha emanato delle linee di indirizzo riguardanti, tra l’altro, l’educazione alla legalità finalizzata alla lotta alla mafia.
 Nell’elaborato dal titolo EDUCAZIONE ALLA LEGALITA’ FINALIZZATA ALLA LOTTA ALLA MAFIA ho illustrato l’importanza innovativa delle linee di indirizzo del Ministro alla luce delle concezioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: in tal modo chi legge può prendere atto della dimensione nazionale del fenomeno mafioso e della utilità delle iniziative auspicate dal Ministro attraverso le parole dei due magistrati.
 Nell’ elaborato dal titolo MAFIA, PROBLEMA NAZIONALE, corredato da disposizioni ministeriali e brani di fonti autorevoli, gli studenti potranno esigere da insegnanti e presidi che nella scuola venga data piena attuazione alle linee di indirizzo del Ministro relativamente all’educazione alla legalità finalizzata alla lotta alla mafia.
 Mi risulta infatti che molti docenti e dirigenti hanno trascurato o ignorato del tutto queste linee di indirizzo nella parte riguardante proprio l’educazione alla legalità finalizzata alla lotta alla mafia.
 
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 I due elaborati allegati sono stati distribuiti agli studenti provenienti da tutte le regioni d’Italia che hanno partecipato alle manifestazioni organizzate a Palermo dalla FONDAZIONE FALCONE in collaborazione con il MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE in occasione del XVI° anniversario della Strage di Capaci (23 maggio 2008).
 
                                                                                     Prof.  ENZO GUIDOTTO
 
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OSSERVATORIO   VENETO    SUL     FENOMENO   MAFIOSO
Via Giare 9 31033 Castelfranco Veneto (Treviso)   0423 472865 - 348 3713744
E-mail : ossermafia@ libero.it
 
 
IL   PRESIDENTE
 
 
L’EDUCAZIONE ALLA LEGALITA’ FINALIZZATA ALLA LOTTA ALLA MAFIA

nelle “Linee di indirizzo” del Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni del 25 maggio 2007
  
 
 Palermo, 23 maggio 2008
 «Il fenomeno mafioso – si legge nelle ‘linee di indirizzo’ del Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni del 23 maggio 2007 che hanno recepito le conclusioni del Comitato Nazionale “Scuola e Legalità” - è presente, anche se in modo diverso, in tutto il Paese» per cui nella scuola «l’educazione alla legalità finalizzata alla lotta alle mafie dovrà offrire strumenti per la comprensione delle loro differenti connotazioni nelle diverse aree geografiche del territorio nazionale»: da ciò la necessità di far conoscere, in un più ampio contesto, anche «la storia e le caratteristiche del fenomeno, con particolare riguardo alla sua pervasività, che presenta il rischio di sempre maggiori inquinamenti - e non soltanto nel Sud - del sistema economico e delle Istituzioni pubbliche» al fine di «promuovere negli studenti il senso di responsabilità civile e democratica per spronarli ad un costante impegno sociale».
  Fino all’anno scorso, alcune indicazioni sull’argomento, piuttosto frammentarie, andavano ricercate principalmente in due documenti che rimangono comunque validi in tutte le scuole d’Italia: la Circolare Jervolino, numero 302 del 25 ottobre 1993, dal titolo “Educazione alla legalità” e il Decreto Moro, numero  585 del 13 giugno 1958, contenente i “Programmi per l'insegnamento dell'educazione civica negli istituti e scuole d'istruzione secondaria e artistica”.

La Circolare Jervolino del 1993

 La Circolare Jervolino - emanata all’indomani delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio e degli attentati a Roma, Firenze e Milano – nel riconoscere che «la lotta alla mafia un’occasione decisiva per la difesa delle istituzioni democratiche», rileva la necessità che gli insegnanti si muovano nella consapevolezza che «soltanto se l’azione di lotta sarà radicata saldamente nelle coscienze e nella cultura dei giovani, essa potrà acquistare caratteristiche di duratura efficienza, di programmata risposta all’incalzare temibile del fenomeno criminale».

Il Decreto Moro del 1958

   Il Decreto Moro aveva invece fissato già mezzo secolo fa - quando era in corso in Sicilia la prima guerra di mafia che si concluse nel 1963 con la strage di Ciaculli nella quale rimasero uccisi ben sette rappresentanti delle Forze dell’Ordine - alcuni principi fondamentali che, se fossero stati seguiti scrupolosamente, avrebbero contribuito sicuramente ad evitare tante degenerazioni del costume sfociate con l’andar del tempo nei ben noti fenomeni di Mafiopoli e Tangentopoli: «l'educazione civica ha da essere presente in ogni insegnamento», «ogni insegnante prima di essere docente della sua materia, ha da essere eccitatore di moti di coscienza morale e sociale» e deve operare in modo tale da «radicare il convincimento che morale e politica non possono legittimamente essere separate».
 
 Le “linee di indirizzo” del 2007
 
 Integrando ed approfondendo queste disposizioni, le “linee di indirizzo” del 23 maggio 2007 hanno quindi costituito un notevole salto di qualità: una straordinaria scelta innovativa perché è la prima volta che nella storia della scuola italiana un Ministro colloca al primo punto del sistema nazionale di istruzione e di formazione l’ «educazione alla legalità finalizzata alla lotta alla mafia», fissando senza mezzi termini - onde evitare possibili interpretazioni riduttive o fuorvianti – precisi “punti di non ritorno”: sottolinea infatti che il fenomeno mafioso, alimentato dalle tradizionali organizzazioni nate e cresciute nel Meridione, costituisce una questione nazionale perché ha ramificazioni in tutto il Paese ed invita i docenti ad affrontare la questione con riferimento alle variegate situazioni esistenti nelle varie regioni d’Italia.
 Questo orientamento senza precedenti – secondo le precisazioni del Ministro - si inquadra in un «nuovo modello di scuola» che, oltre ad «offrire agli studenti “occasioni di confronto, di dialogo e di conoscenza promuovendo la più ampia progettualità, la capacità di co-gestire, organizzare, esperire" lavorando per i giovani, con i giovani e attraverso i giovani», dovrà «coinvolgere l'intero personale che in essa opera, le famiglie e il territorio».
 Una iniziativa encomiabile, dunque, che il Ministro Fioroni ha tenuto ad annunciare personalmente, alla presenza di nutrite e qualificate rappresentanze di studenti provenienti da tutte le regioni d’Italia, in occasione della manifestazione organizzata dalla Fondazione Giovanni e Francesca Falcone il 23 maggio dell’anno scorso nella ricorrenza della “Strage di Capaci”, proprio qui a Palermo ed in una sede particolarmente simbolica: l’aula bunker del “Carcere dell’Ucciardone” dove fra il 1986 e il 1987 fu celebrato il maxiprocesso a Cosa Nostra che si concluse con una sentenza contenente dure condanne per i suoi esponenti, passata indenne al vaglio della Cassazione perché basata su un’efficace istruttoria curata, sotto la guida di Antonino Caponnetto, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ai quali furono affiancati i colleghi Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Tema della manifestazione, «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: la loro lezione di libertà e di democrazia».
 
 Falcone e Borsellino: libertà e democrazia
 
 «La scuola, presidio di legalità – ha sottolineato il Ministro - è credibile nella sua funzione educativa quando è in grado di proporre modelli positivi di comportamento».
 Quale, in tal senso, il messaggio dei due magistrati relativamente a quei valori? Quello del dovere dei cittadini, giovani o adulti che siano, a prendere coscienza della dimensione vera e della reale pericolosità che il fenomeno presenta per la società, l’economia, la politica e le istituzioni, ed a partecipare democraticamente in tutto il Paese, sia pure con ruoli e strumenti diversi, al suo superamento attraverso il contributo alla graduale rimozione delle condizioni che ne hanno consentito quello sviluppo che, soprattutto nelle regioni del tradizionale dominio, ha privato o limitato in larghe fasce della comunità e del mondo imprenditoriale, a seconda dei casi, la libertà dal bisogno e dalla paura, la libera iniziativa, il libero mercato e la libera espressione del consenso popolare.
 A me che vivo da più di quarant’anni in Veneto, la presenza a Palermo di tanti giovani del Centronord a conclusione di un percorso di preparazione scolastica fa venire in mente l’importanza che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino attribuivano ai convegni di studio e più in generale alle iniziative culturali ed educative organizzate soprattutto nelle regioni del Centronord, alle quali partecipavano spesso, per far capire che il fenomeno mafioso, già da decenni aveva assunto una portata nazionale.
 
1983 Falcone a Venezia: “Mafia, problema nazionale”
 
Giovanni Falcone manifestò ad esempio grande soddisfazione quando nel 1983 – ad un anno dall’emanazione della Legge La Torre – partecipò a Venezia a un convegno, patrocinato dalla Regione Veneto, sul tema «Difesa della convivenza civile dalla mafia e dalle altre associazioni di tipo mafioso» promosso per approfondire l’applicabilità della nuova normativa nei confronti di appartenenti ad organizzazioni criminali ovunque operanti e «comunque localmente denominate».
 «Questo seminario di studi – disse infatti il magistrato – è la testimonianza della consapevolezza che, finalmente, comincia ad acquisirsi della mafia come problema nazionale, sia per la sua estensione territoriale con collegamenti con similari organizzazioni criminali, sia per gli inquietanti nessi col mondo economico e con le Istituzioni, costituenti un autentico pericolo per la stessa sopravvivenza dell’ordine democratico. Deve darsi, quindi, espresso riconoscimento della sensibilità nell’organizzare un seminario per lo studio di tali problemi in una zona che troppo a lungo è stata ritenuta, a torto, indenne da infiltrazioni mafiose».
 «In questa città non si sono ancora manifestati fenomeni eclatanti di criminalità organizzata come quelli che, purtroppo, si debbono registrare in tante altre regioni d’Italia, soprattutto di quella meridionale; né il tessuto sociale di queste zone può ritenersi profondamente intaccato da manifestazioni di omertà e di convivenza. Ma sarebbe illusorio ritenere – e ciò, del resto, è smentito da recentissime indagini giudiziarie – che le organizzazioni mafiose non operino anche in queste zone».
 
 Percezione tardiva del fenomeno al Nord
 
 E’ infatti «una dolorosa realtà – concluse Giovanni Falcone - il dover constatare che sono sempre più frequenti ed intensi i contatti della criminalità organizzata con la malavita locale, resi necessari dalle stesse esigenze dei traffici illeciti – si pensi al traffico di stupefacenti – e favoriti dalla mancata conoscenza del fenomeno mafioso da parte degli organi di polizia e della magistratura».
  La validità di queste considerazioni fu sottolineata verso la fine di luglio del 1992, quando non si era ancora spenta l’eco delle vicende di Capaci e di Via D’Amelio, dal dottor Antonio Fojadelli, della locale Direzione Distrettuale Antimafia, in un’intervista al quotidiano “Il Gazzettino”. Quando è cominciato – gli chiese una giornalista – il fenomeno mafioso in Veneto? «Quando è cominciato – rispose – non lo sappiamo. Posso dire che in qualunque momento ce ne siamo accorti, è comunque stato tardi. Ci sono due ordini di constatazione: che mancava l’organizzazione conoscitiva, da parte dell’autorità, che non fosse di mera facciata; che la disattenzione verso alcuni segnali che c’erano stati all’inizio degli anni Ottanta è stata dovuta certamente al desiderio di rimuovere qualcosa che si sarebbe voluto appartenesse a qualcun altro».
  «Ricordo – precisò il dottor Fojadelli -   un accenno di Giovanni Falcone, di molti anni fa. Camminavamo in Campo San Polo, era qui per le indagini sull’omicidio Dalla Chiesa, era con il commissario Ninni Cassarà, morto ammazzato anche lui. Mi disse: “Nemmeno voi, qui, potere permettervi il lusso di essere disattenti”. Il significato di quella frase ci è parso più chiaro anni dopo, quando abbiamo capito – con il nascere e l’approfondirsi dell’inchiesta sulla Riviera del Brenta – che si disegnava un quadro di connessioni criminali consolidate anche in Veneto. La storia e le investigazioni confermarono che un certo modo di pensare aveva lasciato degli eredi».
 
I soggiornanti obbligati
 
 Il riferimento era ai soggiornanti obbligati che dal 1956 al 1988 venivano condannati a risiedere in zone lontane da quelle d’origine per impedire, da un canto, di continuare ad esercitare un certo potere basato sull’intimidazione ed a svolgere traffici illeciti protetti dall’omertà e per offrire, dall’altro, la possibilità di cambiar vita inserendosi in un ambiente sociale sano.
   In realtà i soggiornanti obbligati – presenti nelle regioni della penisola in 2360 solo fra il 1961 e il 1972 – continuarono a mantenere i legami con le cosche di appartenenza ed avviarono rapporti con la malavita locale strumentalizzandola soprattutto ai fini del traffico di stupefacenti.
 
Prendere coscienza del problema nel Centronord
 
Per questo – concluse il dottor Fojadelli - «il Veneto deve avere coscienza, non paura perché qui il fenomeno non è radicato. Ma nessuno, ripeto, nessuno, può più permettersi di dire che non son fatti che lo riguardano».
 Ed è chiaro che il discorso valeva e vale ancora per tutte le regioni del Centronord e non soltanto per l’influenza dei soggiornanti obbligati perché alle conseguenze del “contagio” si sono aggiunte quelle della “imitazione” non soltanto da parte di malavitosi, ma anche di spregiudicati operatori economici locali che sempre più frequentemente sono scesi a patti con “uomini del disonore”: basti pensare – ma soltanto per fare qualche esempio particolarmente significativo –ai traffici di stupefacenti diffusi un po’ dappertutto, all’acquisto, da parte di boss mafiosi, di azioni di società in Borsa, denunciato a chiare lettere da Giovanni Falcone già negli anni Ottanta; al “Clan delle tangenti” di Savona del quale faceva parte il presidente della Regione Liguria, iscritto alla P2; all’inchiesta palermitana su “Mafia e appalti” che nel luglio del 1991 coinvolse amministratori di varie società del Centronord; alla vicenda milanese della “Duomo Connection”, un intreccio di politica, affari, mafia e massoneria; allo scioglimento dei Consigli Comunali di Bardonecchia (Torino) nel 1995 e di Nettuno (Roma) nel 2005 perché condizionati da associazioni mafiose; all’eliminazione, nel 1979 a Milano, dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore – per incarico della Banca d’Italia - di una banca di Michele Sindona, anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la P2, poi condannato come mandante del delitto; all’uccisione del Procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia nel 1983, proprio nel momento in cui aveva scoperto inquietanti contatti tra boss trapiantati al Nord ed alcuni suoi colleghi.
 
L’escalation della mafia nel Centronord
 
Ma come e quando si è verificata l’escalation della criminalità di tipo mafioso nel Centronord e nelle are di maggiore sviluppo economico in particolar modo? «Spesso si è parlato contro il soggiorno obbligato: si è detto che mandando i mafiosi al Nord si è esportata la mafia» disse nel gennaio dell’89 Paolo Borsellino parlando assieme a me agli studenti dell’Istituto Profesionale per il Commercio “Remondini” di Bassano del Grappa (Vicenza). «Il soggiorno obbligato – precisò - avrà fatto pure dei danni, ma anche se non ci fosse mai stato, la mafia sarebbe arrivata comunque perché è chiaro che quando si hanno grossi capitali non si bada a per farli fruttare in un’area economica depressa, come può essere la Sicilia, la Calabria o la Campania».
   «Fino a una certa epoca – spiegò il magistrato - l’organizzazione mafiosa aveva avuto interessi prevalentemente agricoli o tutt’al più di sfruttamento di aree edificabili. Poi è avvenuto qualcosa di ancora più grave perché la mafia è passata al traffico della droga. Badate bene: il traffico delle sostanze stupefacenti non l’ha inventato la mafia. E’ nato fuori dalla mafia e gestito a lungo da organizzazioni non mafiose: in principio in Europa furono infatti i cosiddetti “marsigliesi” che se ne occuparono. Ad un certo punto la mafia scoprì che, inserendosi nel settore, i suoi profitti potevano essere enormemente moltiplicati e, fra gli anni ’70 e gli anni ’80, tra l’indifferenza generale, si impossessò del monopolio del traffico delle sostanze stupefacenti ed è diventata un grossissimo problema nazionale perché una cosa è una organizzazione che agisce illecitamente in un campo che però geograficamente resta limitato ad alcune regioni, ben altra cosa è che questa organizzazione diventi potentissima perché ha la disponibilità di risorse così enormi che talvolta raggiungono quasi le cifre di bilanci di piccoli o grossi Stati. E dovendo gestire questi enormi capitali che cosa ha fatto ? I capitali come si gestiscono ? Si vanno a cercare dei mercati dove poterli poi impiegare, nelle attività che noi chiamiamo “paralecite”, cioè nelle attività nascono dall’illecito ma le cui entrate si cerca poi di impiegarle da qualche parte», cioè nel settore legale. «E la mafia va a cercare naturalmente i mercati più ricchi, che non sono i mercati del Sud: sono i mercati del Nord, come Milano, come Torino, dove i capitali impiegati fruttano di più».
 La disponibilità in loco di queste risorse rappresentò – e continua a rappresentare – una autentica tentazione per operatori economici senza scrupoli votati al motto “pecunia non olet”, come precisò Paolo Borsellino il 21 maggio del ’92, appena due giorni prima della “Strage di Capaci”, nell’ intervista rilasciata a due  giornalisti della rete televisiva francese “Canal Plus”. «E’ normale – disse - che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerchi gli strumenti per poterle impiegare sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Quindi non mi meraviglia il fatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si sia trovata in contatto» con «certi finanzieri che si occupavano di movimenti di capitali» ed abbia cominciato «a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttare questi capitali dei quali si era trovata in possesso».
 
Corruzione, anticamera della mafia
 
Ma nel corso degli anni non c’è stato soltanto questo, purtroppo. «Di cosa dobbiamo preoccuparci noi che abitiamo al Nord?» chiese, nel maggio del 1990, una ragazza a Paolo Borsellino, durante un incontro pubblico da me organizzato a Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso con il patrocinio del locale Distretto Scolastico. «Della corruzione, perchè la corruzione è l’anticamera della mafia» fu la risposta secca ed immediata. «E il motivo – spiegò - è facile da capire : se un esponente delle organizzazioni mafiose va in cerca di punti di riferimento per riciclare o investire nell’economia legale capitali di origine illecita fuori dalla propria regione non può che rivolgersi a politici o ad amministratori corrotti, cioè a persone che hanno rivelato una certa inclinazione».
 Proprio in quei giorni e proprio a Treviso era stato arrestato il “numero due” della “Duomo Connection”, un ingegnere palermitano trapiantato a Milano che avrebbe dovuto compiere in città un’operazione finanziaria con una società con sede in una piazza situata in pieno centro, a due passi dalla Prefettura e da una macelleria gestita da un soggetto plurinquisito, appartenente a una potente famiglia mafiosa di Alcamo nonché amico di un assessore comunale del capoluogo della Marca. Per la buona riuscita dell’affare, il trafficante aveva chiesto una raccomandazione al capo di una loggia massonica, il quale si era impegnato a promuovere un appoggio in suo favore a un senatore veneto eletto nella zona che era stato più volte ministro. Alla fine l’ingegnere fu condannato a 21 anni di carcere per traffico di stupefacenti e corruzione mentre l’ex ministro, processato per corruzione relativamente ad altre vicende, se la cavò con la scorciatoia del patteggiamento, non fece un giorno di carcere e dopo un po’ di tempo tornò a far politica.
 
 La mafia non è solo droga
«La mafia – sottolineò Paolo Borsellino nel maggio del 1989 nel corso di una conferenza al Liceo Visconti di Roma, incentrata sull’importanza dei giovani nella lotta alla mentalità mafiosa - non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti. Se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso: il traffico delle sostanze stupefacenti le ha dato una forza incredibile, un'enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos'altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose. Oggi c'è il grosso pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d'olio tutta l'Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d'Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma così potente in Sicilia». Tanto potente «che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l'acqua in cui questo immondo pesce nuota».

Spiegare la mafia ai giovani di tutta Italia
«E l'acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto agli adulti. E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso (Procura di Marsala, nel Trapanese), vado spesso a parlare in paesi dell'interno o del Belice [e mi viene detto]: "ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose". Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro. La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente».
 
Il ruolo delle istituzioni
 
«Ma questo – proseguì Paolo Borsellino - è solo metà del cammino perché quand'anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa allo Stato sarebbe stato fatto metà del cammino. L'altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l'interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, sino a quando occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire. Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall'altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell'interesse di tutti e non l'interesse né dei singoli né delle fazioni».

Il dovere della politica
Una constatazione, questa, che sembra confermare quanto osservato una decina di anni fa dall’ex parlamentare siciliano Emanuele Macaluso nel libro “Mafia senza identità”. «Per fare avanzare una cultura antimafiosa – ha scritto – è stata presa la lodevole iniziativa di discutere questi temi nelle scuole. Lo fanno alcuni insegnanti, lo hanno fatto il generale Dalla Chiesa, lo fa Caselli e sistematicamente don Luigi Ciotti con la sua associazione Libera. Ancora una volta dico che queste iniziative, se non c’è la politica, cioè la competizione per governare sulla base di programmi e di valori, non portano lontano. E lo vediamo nel momento stesso in cui gli stessi procuratori impegnati nelle inchieste contro la mafia, dopo tanti successi, sostengono che il fenomeno sia più diffuso e pericoloso».
 All’epoca, nel panorama della criminalità organizzata nazionale, spiccava Cosa Nostra, entrata in crisi con gli importanti arresti degli ultimi tempi. Oggi l’organizzazione più potente è la ndrangheta. Per quanto riguarda la camorra ed i gruppi pugliesi basta leggere giornalmente le notizie di cronaca. Ma ciò che più inquieta è la “ramificazione territoriale” delle quattro malepiante nelle regioni del Centronord, denunciata a chiare lettere dal dottor Piero Grasso proprio nel momento in cui ha lasciato la Procura di Palermo per assumere l’incarico di capo della Direzione Nazionale Antimafia: da inchieste in corso – ha detto – risulta che operatori economici al di sotto di vari sospetti, per fare affari ed accaparrare appalti pubblici, dal Sud si dirigono verso le regioni del Nord e dal Nord tendono a spostarsi verso le regioni del Sud.
 
 Più che opportune, dunque, le “linee di indirizzo” del ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni che, sintetizzando l’essenza delle concezioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sottolineano che l’ «educazione alla legalità finalizzata alla lotta alla mafia», deve essere concepita come «impegno comune a fronteggiare situazioni in cui le organizzazioni criminali si pongono come antagoniste dello Stato» e deve servire   - è il caso di ribadire - a far conoscere anche «la storia e le caratteristiche del fenomeno, con particolare riguardo alla sua pervasività, che presenta il rischio di sempre maggiori inquinamenti - e non soltanto nel Sud - del sistema economico e delle Istituzioni pubbliche» al fine di «promuovere negli studenti il senso di responsabilità civile e democratica per spronarli ad un costante impegno sociale».
   In questa prospettiva, il documento costituisce sicuramente la base di partenza per un’azione culturale ed educativa efficace e duratura in tutte le scuole di ogni ordine e grado.                                                                                                                          
  
                                                                                                                         Prof.    ENZO GUIDOTTO
 
 
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 Come si può impostare nelle scuole un percorso culturale ed educativo sulla dimensione vera e sulla reale pericolosità del fenomeno mafioso? L’allegato elaborato dal titolo “Mafia, problema nazionale” costituisce uno schema di riferimento per lo svolgimento di un’azione didattica aperta ai più opportuni approfondimenti ed alle necessarie integrazioni per consentire una adeguata comprensione delle differenti connotazioni che le varie mafie presentano nelle diverse aree geografiche del territorio nazionale raccomandata dalle “Linee di indirizzo” del Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni del 23 maggio 2007.
 
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OSSERVATORIO   VENETO    SUL     FENOMENO   MAFIOSO
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IL   PRESIDENTE
 
 
Come si può impostare nelle scuole un percorso culturale ed educativo sulla dimensione vera e sulla reale pericolosità del fenomeno mafioso? L’ elaborato che segue contiene uno schema di riferimento per lo svolgimento di un’azione didattica aperta ai più opportuni approfondimenti ed alle necessarie integrazioni per consentire una adeguata comprensione delle differenti connotazioni che le varie mafie presentano nelle diverse aree geografiche del territorio nazionale raccomandata dalle “Linee di indirizzo” del Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni del 23 maggio 2007.
 
 
MAFIA, PROBLEMA  NAZIONALE
Illustrazione semplificata del fenomeno e indicazione delle condizioni per il suo superamento
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 Il fenomeno mafioso (1) ha assunto una dimensione nazionale perché negli ultimi decenni le organizzazioni che lo alimentano (Cosa Nostra siciliana, Ndrangheta calabrese, Camorra campana e Sacra Corona Unita pugliese), non sempre adeguatamente ostacolate dalle pubbliche istituzioni e dalla società civile, sono riuscite  ad operare – gradualmente ma con continuità - in tre precise direzioni: in un primo tempo hanno sviluppato in tutto il Paese una vera e propria economia mafiosa, formata da attività di acquisizione, riciclaggio e investimento nel settore legale di capitali di provenienza illecita; successivamente si sono mosse come sempre alla ricerca di collegamenti con i pubblici poteri anche a livello centrale, per avere protezioni ed aiuti d’ogni tipo; infine hanno esercitato, nel Sud come nel Centro-Nord, varie forme di violenza mafiosa e di intimidazione contro quei magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, imprenditori, professionisti, sacerdoti ed uomini della democrazia che nello svolgimento dell’azione di contrasto hanno operato coraggiosamente in prima linea, ad oltranza e senza guardare in faccia  nessuno.
 Basti pensare – ma soltanto per fare qualche esempio particolarmente significativo – alla diffusione dei traffici di stupefacenti; all’acquisto, da parte di boss mafiosi, di azioni di società in Borsa, denunciato a chiare lettere da Giovanni Falcone già negli anni Ottanta; al “Clan delle tangenti” di Savona del quale faceva parte il presidente della Regione Liguria, iscritto alla P2; all’inchiesta palermitana su “Mafia e appalti” che nel luglio del 1991 coinvolse amministratori di varie società del Centronord; alla vicenda milanese della “Duomo Connection”, un intreccio di politica, affari, mafia e massoneria; allo scioglimento dei Consigli Comunali di Bardonecchia (Torino) nel 1995 e di Nettuno (Roma) nel 2005 perché condizionati da associazioni mafiose; ai grandi delitti e alle stragi in Sicilia e agli attentati a Roma, Firenze e Milano; all’eliminazione, nel 1979 a Milano, dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore – per incarico della Banca d’Italia - di una banca di Michele Sindona, anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la P2, poi condannato come mandante del delitto; all’uccisione del Procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia nel 1983, proprio nel momento in cui aveva scoperto inquietanti contatti tra boss trapiantati al Nord ed alcuni suoi colleghi.
 Fino a poco tempo fa, nel panorama della criminalità organizzata nazionale, spiccava Cosa Nostra, entrata in crisi a seguito degli importanti arresti registrati degli ultimi tempi. Oggi l’organizzazione più potente è la Ndrangheta. Per quanto riguarda la Camorra ed i gruppi pugliesi basta leggere giornalmente le notizie di cronaca.. Ma ciò che più inquieta è la situazione denunciata a chiare lettere dal dottor Piero Grasso proprio nel momento in cui ha lasciato la Procura di Palermo per assumere l’incarico di capo della Direzione Nazionale Antimafia: da inchieste in corso – ha detto – risulta che operatori economici al di sotto di vari sospetti, per fare affari ed accaparrare appalti pubblici, dal Sud si dirigono verso le regioni del Nord e dal Nord tendono a spostarsi verso le regioni del Sud.
 Quali i principali fattori dell’escalation? Secondo le analisi formulate dalle fonti più attendibili, le ramificazioni territoriali delle tradizionali organizzazioni meridionali si sono estese oltre le regioni del tradizionale dominio perché hanno trovato un pò dappertutto ambienti e situazioni resi favorevoli alla loro penetrazione da quella cultura mafiosa che ha rappresentato il “fertilizzante” ideale del malaffare.
 
 MAFIA E CULTURA MAFIOSA - Per cultura mafiosa, infatti, non si deve intendere soltanto, in senso restrittivo, il modo di concepire la vita e i rapporti sociali tipico degli “uomini d’onore”. Nel significato più ampio e generale, la cultura mafiosa - come l’ha definita il cardinale Salvatore Pappalardo - «è clientelismo e favoritismo insieme, è sentirsi sicuri perchè protetti da un amico o da un gruppo di persone che contano; è pretesa di fare a meno della legge e di poterla impunemente violare».
 «Sono tipiche manifestazioni di tale atteggiamento : il voler fare sempre il proprio comodo con la violazione sistematica delle norme e regolamenti che presiedono, anche in piccole cose, all’ordinato svolgersi della vita civile; l’assenteismo dal lavoro; la pretesa di non spettanti indennità e vantaggi di carriera; l’evasione fiscale organizzata e protetta e tanti altri piccoli e grandi maneggi e compromessi di vario genere che finiscono sempre per risolversi a scapito dei più deboli ed indifesi».
 «Simili atteggiamenti non si riscontrano solo in individui o gruppi caratterialmente delinquenti ma anche in tanti che con il loro abituale comportamento arrogante e pretenzioso si dimostrano culturalmente mafiosi anche se ostentano una rispettabilità sociale».
 Un fenomeno esclusivamente siciliano o tipicamente meridionale? «Se il mafioso è una figura locale - ha rilevato tempo fa Giorgio Lago, direttore de Il Gazzettino - il sentire mafioso è un delitto nazionale, che richiede la mobilitazione della democrazia e dei suoi mezzi, non un sentimento che produce separazione e razzismo».
 
 MAFIA E CORRUZIONE  - Nella cultura mafiosa così concepita rientra a pieno titolo la “logica delle tangenti”, emersa un po’ dappertutto. «Per quanto riguarda il rischio mafia, voi, oggi, qui in Veneto, dovete preoccuparvi soprattutto della corruzione, perchè la corruzione è l’anticamera della mafia» aveva detto il giudice Paolo Borsellino nel maggio del ‘90 in un incontro pubblico a Castelfranco Veneto. In che senso? «Il motivo - aveva spiegato - è facile da capire : se un esponente delle organizzazioni mafiose va in cerca di punti di riferimento per riciclare o investire nell’economia legale capitali di origine illecita fuori dalla propria regione non può che rivolgersi a politici o ad amministratori corrotti, cioè a persone che hanno rivelato una certa inclinazione».
   Tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima metà degli anni Novanta, la pervasività della criminalità mafiosa si è infatti manifestata più intensamente proprio perché ha tratto notevoli vantaggi dai diffusi processi di corruzione verificatisi nello stesso periodo nel sistema economico e nella pubblica amministrazione, soprattutto nelle aree di maggiore benessere.  
 «Se domani la mafia avesse l’intenzione di controllare il mercato economico e finanziario, oppure la gestione dell’amministrazione pubblica a Verona, come in qualsiasi altra città settentrionale, avrebbe la strada spianata» dichiarò nel settembre del 1992 il dottor Guido Papalia, procuratore della Repubblica della città scaligera all’indomani dell’arresto, in provincia di Vicenza, del boss Giuseppe Madonia, ritenuto il “numero due” di Cosa Nostra. «L’importante sistema delle tangenti e il dilagare della corruzione -   precisò - consentirebbe infatti alla mafia di introdursi ed acquisire potere più facilmente anche in questo territorio. In tal senso, tutte le città del Veneto e del Nord in genere vanno bene, perché permettono la penetrazione in un mercato finanziario in continua espansione e quindi in grado di assorbire gli enormi capitali guadagnati illecitamente nelle regioni che più sono sotto il controllo della mafia». In questo contesto, l’arresto a Longare, nel cuore del Veneto, di Giuseppe Madonia -   concluse il magistrato - «rappresenta la dimostrazione che determinate regioni e zone d’Italia, considerate tranquille dalla mafia, vengono usate per affari diversi da quelli che vengono svolti in altre regioni. La mafia non ha interesse a esercitare qui un potere con gli stessi metodi violenti esercitati in Calabria o Sicilia». Con l’andar del tempo, tanti fatti che si sono verificati in varie regioni del Centronord gli hanno dato ampiamente ragione.
 
   SOTTOVALUTAZIONI NEL CENTRONORD  - La permeabilità delle regioni del Centronord , un tempo estranee a fenomeni del genere, di fronte ai tentativi di infiltrazione attuati dagli “ambasciatori” delle varie mafie del Sud - che hanno avviato legami stretti e duraturi con la malavita locale soprattutto nel periodo (1956-1988) in cui boss e gregari venivano mandati in soggiorno obbligato (dal 1961 al 1972 ben 2360) - è stata illustrata con molta chiarezza da non pochi collaboratori di giustizia che si sono rivelati credibili. Particolarmente significative in tal senso le dichiarazioni raccolte dai magistrati che hanno curato, ad esempio, il processo alla “Mafia del Brenta”: Salvatore Contorno ha fatto notare, ad esempio, che in un recente passato, relativamente ai traffici di droga, «il Veneto era in mano a Cosa Nostra» ; Salvatore Annacondia ha fatto presente che il Veneto era ritenuto «una regione tranquilla, dove i grandi capi avevano i loro business, la base dove potevano operare senza essere tartassati dalla magistratura e dalle forze di polizia. Tutte le famiglie mafiose più rappresentative sono collegate con il Veneto» ; Leonardo Messina   ha   addirittura precisato che Totò Riina aveva un’azienda in Veneto.
   
   TRANSNAZIONALITA’ E LUOGHI COMUNI- È ovvio che la situazione riguardante il Veneto è stata analoga a quella che si è sviluppata anche in altre regioni del Centronord: una situazione preoccupante se si considera che alle tradizionali organizzazioni malavisose nate e cresciute nel Meridione, negli ultimi anni si sono affiancati in tutto il Paese gruppi consistenti delle cosiddette mafie straniere e che tutte insieme hanno conferito al fenomeno un carattere transnazionale (2). 
 Ciò malgrado, tanti sono ancora convinti che le varie mafie esistono solo quando si rendono responsabili di clamorosi fatti di violenza ed operano esclusivamente nel Meridione e che nelle altre aree geografiche del Paese la gente si possa tranquillamente disinteressare del fenomeno anche perché non può far niente per contribuire a contrastarlo.
 La mancanza di fondamento di questi luoghi comuni, tanto diffusi quanto errati,  è confermata giornalmente dai massimi esponenti delle istituzioni.
 Non va inoltre sottovalutato il fatto che, già nel 1994, il procuratore nazionale antimafia dell’epoca Bruno Siclari denunciò l’esistenza di stretti legami fra il fenomeno Mafiopoli del Sud e il fenomeno Tangentopoli del Centronord, purtroppo non ancora del tutto scomparsi: «la criminalità organizzata ed i politici corrotti - disse - usano glistessi canali per il riciclaggio del denaro sporco». E siccome mafia e corruzione hanno inquinato nel tempo l’economia nazionale, la politica nazionale e le istituzioni pubbliche a livello locale e centrale, la soluzione democratica dei due problemi non può prescindere dal coinvolgimento dei cittadini che nel loro insieme formano il “popolo sovrano”.
 
  INIZIATIVE NELLE SCUOLE - Alla luce delle vigenti disposizioni del Ministero della Pubblica Istruzione, nelle scuole, il problema va affrontato in modo esauriente sia sotto l’aspetto conoscitivo che dal punto di vista propositivo.
 In questo contesto, la mia proposta è orientata non solo a far conoscere il fenomeno mafioso nel suo sviluppo secolare e nella dimensione attuale, ma anche a far capire che l’azione di contrasto non può continuare ad essere affidata esclusivamente alle forze dell’ordine e alla magistratura come se le varie mafie presenti nel Sud come nel Centronord fossero delle semplici forme di criminalità organizzata.
 Il fenomeno mafioso, come si deduce dall’esame  dei tre elementi costitutivi elencati all’inizio (economia mafiosa, collegamento con i pubblici poteri, violenza mafiosa), ha infatti assunto storicamente la configurazione di un vero e proprio potere economico e politico esercitato con la violenza che si è collocato nel più ampio contesto di quel “sistema eversivo”, responsabile dei crimini e misfatti che hanno caratterizzato la “notte della Repubblica” , costituito da politici complici e conniventi con boss mafiosi e terroristi rossi e neri, alti funzionari statali infedeli, burocrati collusi, soggetti deviati dei servizi segreti, esponenti senza scrupoli dell’alta finanza sporca, gruppi eversivi e logge massoniche coperte.
 Inoltre, per troppo tempo, la “piovra” ha tratto alimento e forza non soltanto dai proventi derivanti dall’attività economica svolta, dal sostegno garantito da esponenti dei pubblici poteri e dall’omertà provocata dalla violenza intimidatrice, ma anche dagli elementi nutritivi ed energetici che ha trovato nel suo ideale liquido di coltura, costituito dalla cultura mafiosa.
 
    DALLA VISIONE GLOBALE AL PROGETTO GLOBALE− Stando così le cose l’unica via da seguire è quella di passare dalla “visione globale” del fenomeno alla predisposizione di un “progetto globale” per il suo superamento, articolato su quattro versanti da percorrere contemporaneamente: giudiziario, economico, istituzionale, democratico.
Lungo il versante giudiziario un’azione energica ed efficace è possibile a condizione che ci sia un costante potenziamento e perfezionamento della legislazione in materia e delle strutture della magistratura, delle forze di polizia, dell’apparato penitenziario, dell’ amministrazione finanziaria centrale e periferica e degli organismi che vigilano sulle società commerciali, sul sistema bancario e sugli altri enti di intermediazione finanziaria.
Lungo il versante economico si possono raggiungere buoni risultati attraverso provvedimenti capaci di rimuovere le condizioni che nel Meridione hanno favorito la nascita e la crescita del fenomeno e di evitare che le stesse possano crearsi altrove. I risultati di una ricerca svolta dal CENSIS nel 2003 hanno dimostrato che senza i meccanismi di distorsione del mercato pilotati dalle organizzazioni mafiose, negli ultimi tempi il sistema economico meridionale avrebbe potuto creare almeno 180.000 posti di lavoro in più l’anno. Da ciò l’esigenza improrogabile di promuovere, da un canto, un armonico sviluppo del Paese per superare i tradizionali squilibri territoriali e risolvere il problema della disoccupazione che rappresenta la maggiore riserva di manovalanza per le organizzazioni malavitose; e di varare, dall’altro, una seria politica di incentivazione e di oculato controllo dei finanziamenti e degli appalti pubblici per salvaguardare e sostenere l’economia sana minacciata, nel Sud come nel Centro-Nord, dall’invadenza della mafia imprenditrice e finanziaria.
Lungo il versante istituzionale bisogna tendere al risanamento morale delle istituzioni, soprattutto rappresentative, nazionali e locali, attraverso un’azione diretta a disinquinare i “palazzi” dalle infiltrazioni di esponenti dei poteri criminali ed occulti ed a ripristinare quella chiarezza, quella trasparenza, quella linearità e quell’efficienza che rappresentano la condizione indispensabile per recuperare ed elevare il grado di fiducia dei cittadini verso lo Stato.
Lungo il versante democratico, infine, occorre intensificare la promozione di iniziative di approfondimento culturale e di sensibilizzazione civica sul problema per perseguire il duplice obiettivo di far capire a tutti la reale portata e la potenziale pericolosità che il potere mafioso e la cultura mafiosa presentano per la società, l’economia, la democrazia, la politica e le istituzioni e di favorire una presa di coscienza sempre più profonda sul ruolo del “popolo sovrano” in uno Stato autenticamente democratico : un ruolo di vigilanza e di stimolo nei confronti di quanti operano all’interno delle Istituzioni perché si adoperino con tempestività e determinazione nei tre precedenti settori e contribuiscano all’eliminazione delle logiche clientelari che hanno minato alla base il nostro sistema rappresentativo.
 Il compito di operare nel campo culturale ed educativo - all’insegna del motto “la conoscenza crea coscienza” - spetta alla famiglia, alla Chiesa, alla Scuola, agli Enti Locali, ai Sindacati, alle associazioni ed ai gruppi di impegno civico (3).
 
 
 
 
                                                                                                            Prof.      ENZO GUIDOTTO
 
NOTE
 
(1)
 La parola fenomeno deriva dal greco antico “phainòmenon”, che significa «ciò che appare» o «tutto ciò che appare».
 Per fenomeno si intende quindi l’insieme delle manifestazioni di eventi naturali, sociali, economici, politici che si sviluppano in un certo ambito, in un particolare momento, in un determinato periodo o in tempi molto lunghi.
 L’espressione fenomeno mafioso indica pertanto tutto ciò che riguarda la mafia nei suoi aspetti soggettivi (organizzazioni) ed oggettivi (attività).
   La parola mafia indica, in senso stretto, la mafia siciliana (Cosa Nostra, “Stiddra” e qualche altro gruppo meno importante); più in generale, il complesso delle organizzazioni simili alla stessa.
   Il termine mafia - spiegò Giovanni Falcone nell’autunno del 1992 in una conferenza tenuta presso il “Bundesriminallant” di Wiesbaden, in Germania - può essere utilizzato in senso ampio per indicare le più importanti organizzazioni criminali italiane. Esse, infatti, «possono essere definite in generale mafiose o di tipo mafioso in quanto operano secondo metodi che sono tipici della mafia (siciliana, nda)».
 E’ utile ricordare in tal senso che la denominazione degli organismi che svolgono in modo specifico l’azione di contrasto delle varie organizzazioni è “Direzione Nazionale Antimafia”, “Direzione Distrettuale Antimafia”, “Direzione Investigativa Antimafia”.
  Lo stesso termine mafia si può usare anche relativamente ad organizzazioni o gruppi stranieri caratterizzati dagli stessi modelli di comportamento.
 D’altra parte, l’articolo 416 bis del Codice Penale che contempla l’associazione di tipo mafioso è applicabile nei confronti di qualsiasi organizzazione «comunque localmente denominata», costituita da cittadini italiani o stranieri che fanno leva sull’intimidazione derivante dal vincolo associativo che produce nei destinatari condizioni di assoggettamento e di omertà (reati mezzo) per il raggiungimento dei loro scopi criminosi (reati fine)
 
(2)
«Internazionale – si legge nella relazione della Commissione parlamentare antimafia del luglio 2003 – è un gruppo criminale che non opera unicamente nel territorio del proprio Stato ma svolge la sua attività anche all’estero con opportune ramificazioni; transnazionale è invece la cooperazione sinergica, che gruppi criminali di diversa nazionalità instaurano per ottimizzare lo sfruttamento di determinate opportunità di mercato illecito: questa integrazione funzionale non solo supporta il traffico ma potenzia le capacità operative dei singoli gruppi interagenti».
 
 
(3) 
A - DPR del 13 maggio 1958 del Ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro riguardante i “Programmi per l’insegnamento dell’Educazione civica negli istituti e scuole d'istruzione secondaria e artistica”:
 «L’educazione civica ha da essere presente in ogni insegnamento».
 «Ogni insegnante, prima di essere docente della propria materia, ha da essere eccitatore di moti di coscienza morale e sociale».
 «L’insegnante dovrà proporsi di tracciare una storia comparativa del potere, nelle sue forme istituzionali e nel suo esercizio, con lo scopo di radicare il convincimento che morale e politica non possono legittimamente essere separate, e che, pertanto, meta della politica è la piena esplicazione del valore dell’uomo».
 
B - “Linee di indirizzo” del 23 maggio 2007 del Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni:
       «L' educazione alla legalità   è, in primo luogo, impegno comune a fronteggiare situazioni in cui le organizzazioni criminali si pongono come antagoniste dello Stato e a stimolare i giovani a respingere le seduzioni dell' illegalità organizzata. La lotta alle mafie non può prescindere dalla loro conoscenza; ha come finalità il graduale superamento del fenomeno mafioso e va condotta attraverso una strategia globale, lungo vari versanti. Uno di questi è quello culturale ed educativo che va percorso da differenti istituzioni ed agenzie formative: la scuola, le associazioni e gli enti di impegno civico, culturale e religioso, particolarmente attivi nel contrastare la criminalità organizzata attraverso iniziative di forte impatto culturale.

Il fenomeno mafioso è presente, anche se in modo diverso, in tutto il Paese. Conseguentemente, l'educazione alla legalità finalizzata alla lotta alle mafie dovrà offrire strumenti per la comprensione delle loro differenti connotazioni nelle diverse aree geografiche del territorio nazionale. Nelle zone maggiormente a rischio appare fondamentale un'educazione alla legalità che proponga agli studenti modelli di comportamento e di vita alternativa agli stili mafiosi che hanno presa sul mondo giovanile. Tuttavia nei differenti contesti territoriali, occorre far capire che la corruzione è l'anticamera della mafia e far conoscere i rischi della ulteriore diffusione del fenomeno mafioso.

La scuola, luogo di tutela dei diritti e di esercizio di cittadinanza attiva, offre agli studenti le basi per diventare cittadini consapevoli, nella propria Città, nella propria Nazione, nel Mondo, responsabili del proprio e dell'altrui futuro.

Nella pratica didattica dovranno essere create le condizioni per consentire la massima armonia fra la dimensione cognitiva e la dimensione educativa degli interventi. Con riferimento alla dimensione cognitiva, infatti, possono affrontarsi la storia e le caratteristiche del fenomeno mafioso, con particolare riguardo alla sua pervasività, che presenta il rischio di sempre maggiori inquinamenti - e non soltanto nel Sud - del sistema economico e delle Istituzioni pubbliche. La dimensione educativa può promuovere negli studenti il senso di responsabilità civile e democratica, per spronarli ad un costante impegno sociale. Le attività educative promosse nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, dovrebbero favorire l'acquisizione di competenze interpersonali, interculturali, sociali e civiche, che consentano la partecipazione consapevole e responsabile alla vita sociale e lavorativa in società sempre più complesse».

C - Circolare Ministeriale 25 ottobre 1993, n. 302 del Ministro della Pubblica Istruzione Rosa Russo Jervolino
«La lotta alla mafia rappresenta, oltre che un’occasione specifica di traduzione in termini concreti dell’educazione alla legalità, anche una verifica operativa di un processo formativo che è destinato a creare, in tutti i cittadini, una forte cultura civile e ad inserire nel circuito democratico persone sempre più coscienti dell’importanza che, per la vita del Paese, rivestono la correttezza dei rapporti giuridici, la salvaguardia dei diritti individuali, il rifiuto di qualsiasi forma di contiguità tra società del diritto e società della sopraffazione».
 «In questo senso, la lotta alla mafia costituisce un’occasione decisiva per la difesa delle istituzioni democratiche e per la creazione di una vita equa e paritaria per tutti i cittadini».
 «E’ quindi necessario che gli insegnanti, nella loro azione educativa, si muovano nella consapevolezza che «soltanto se l’azione di lotta sarà radicata saldamente nelle coscienze e nella cultura dei giovani, essa potrà acquistare caratteristiche di duratura efficienza, di programmata risposta all’incalzare temibile del fenomeno criminale».
D – Conferenza Episcopale Italiana (CEI) : Documenti su “Chiesa Italiana e Mezzogiorno: sviluppo e solidarietà”, ottobre 1989 e “Educare alla legalità”, ottobre 1991.
 
E – Commissione parlamentare antimafia, Relazione Carlo Smuraglia, gennaio 1994:
«In corrispondenza di consistenti sintomi di risveglio della coscienza civile nelle aree tradizionali (rivolta morale regioni del Sud, nda), bisogna che nel resto del Paese si diffonda la convinzione del carattere nazionale del fenomeno, della sua varietà di forme e di comportamenti, della sua capacità di adattamento agli ambienti, della sua aspirazione a costruire una vera e propria economia criminale, alternativa rispetto a quella che si fonda sulla libera concorrenza e sul libero mercato. Ma occorre, per questo, una collaborazione attiva ed un impegno proficuo da parte degli Enti locali, delle forze economiche e sociali, della società civile, del mondo politico».
 «Bisogna sconfiggere, nel Centronord, l’idea che prospettare i pericoli della mafia produca effetti negativi sul buon nome di una città o di una regione. Bisogna rimuovere antichi pregiudizi, preconcetti, illusioni e perfino atteggiamenti che talora nascondono altri obiettivi».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Andrea  - educazione.........   |2008-09-18 19:07:21
ho sempre pensato, e tante volte l'ho scritto, che questa nazione ha un popolo
ancora molto lontano dalla civiltà; scopro oggi, girando per caso, un sito che
purtroppo mette in evidenza come anche una divisa, che arriva ben dopo un
percorso formativo, non basta a coprire alcune
lacune.
http://www.poliziotti.it/
....per capire bisogna però arrivare fino
in fondo alla pagina....e se me ne sono accorto io che notoriamente sono critico
in molte vostre determinazioni, penso che voi salterete sulla sedia!!!
salvatore   |2008-09-22 23:10:55
Il commento è un po' criptico. Sono andato sul sito citato ma contiene molti
post e quindi molte pagine e non sono riuscito ad individuare a quale post e/o a
quale pagina ti riferisci. Potresti esplicitarlo con maggiore chiarezza?
vannlora  - D'accordo con Salvatore   |2008-09-23 00:18:10
Sono d'accordo con Salvatore. Sono andata a leggere la pagina indicata e penso
ci si riferisca al post su Contrada, ma penso che Andrea potrebbe chiarire
meglio. Il commento è criptico davvero.

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