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Gomorra a Milano PDF Stampa E-mail
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Scritto da Nando Dalla Chiesa   
Venerdì 03 Ottobre 2008 17:13

«Mafia a misura Duomo». Con questo titolo in copertina, vent’anni fa, il mensile Società civile lanciava l’allarme sulla presenza della mafia a Milano. Il sindaco di allora, Paolo Pillitteri, smentì recisamente che in città esistesse un pericolo di infiltrazione o addirittura di presenza delle cosche. Gli andò dietro con garbo la procura generale. Che, ancora nel ’92, dichiarò all’inaugurazione dell’anno giudiziario che non c’era prova processuale della presenza mafiosa a Milano, dal momento che non vi erano ancora state irrogate condanne passate in giudicato. Poi, in pochi anni, la pietosa (e complice) bugia fu travolta dai fatti.

Migliaia di arresti, indagini su Cosa nostra e, soprattutto, sulla ‘Ndrangheta. Maxiprocessi a raffica e condanne altrettanto a raffica. Fino alle operazioni degli ultimi mesi, che hanno toccato l’Ortomercato e l’hinterland meridionale, a partire dal comune di Buccinasco.

Eppure, appena si gratta sotto la superficie delle frasi di circostanza, Milano appare ancora resistente a confessare la sua malattia. Proprio come vent’anni fa. Vive lo stesso, identico riflesso condizionato di tante città e amministrazioni del sud. L’idea che a dichiarare l’esistenza del problema si infanghi il buon nome della città e dei cittadini, gente onesta - sempre così si grida tra gli applausi - abituata a lavorare. Si facciano correre rischi incalcolabili all’economia, agli affari e all’immagine internazionale. Perciò nelle ultime settimane incontra tante resistenze la proposta, presentata in consiglio comunale dal partito democratico, di dar vita a una commissione antimafia che analizzi con logiche autonome da quelle giudiziarie la situazione cittadina, sulla quale (fra l’altro) grava la minaccia di una nuova offensiva degli interessi criminali in vista dei giganteschi finanziamenti dell’Expo 2015. Una commissione per capire, per misurare, per decidere strategie politiche e amministrative. Le obiezioni si accavallano. La situazione non è così grave, non siamo in Sicilia o in Calabria. La mafia c’è, ma ci pensino la magistratura e le forze dell’ordine. Sarebbe uno spreco di fatica e di soldi, una commissione così non servirebbe a niente. Sarebbe una nuova occasione per strumentalizzazioni politiche.

E invece sulla gravità non dovrebbero esserci dubbi. La Lombardia è la quarta regione di mafia d’Italia, la quarta anche per beni confiscati alle organizzazioni mafiose. L’ospitalità della capitale e della sua area metropolitana verso i clan è ormai storia conclamata. Da Joe Adonis che vi aveva messo radici a Luciano Liggio che vi venne catturato latitante. Dalle presenze cresciute sull’onda del vecchio confino a quelle che non hanno avuto alcun bisogno del confino ma sono arrivate a vele spiegate sull’onda dei soldi da riciclare. Basta leggere gli atti della commissione parlamentare antimafia, non solo l’ultima ma anche quella del 2001-2006 guidata dal centrodestra, per rendersi conto di quanto penetrante, insistita e avvolgente sia la carica lanciata dalla ‘Ndrangheta nei confronti della capitale economica e finanziaria del Paese. È una situazione che richiede una mobilitazione immediata, in città e in provincia, dalla quale i consigli comunali non possono chiamarsi fuori. Qualche week end fa la città di Desio è stata testimone silenziosa di una tipica, perfetta scena da Gomorra. Decine e decine di camion dei clan sono andati avanti e indietro per le sue strade rovesciando montagne di sostanze tossiche su terreni privati, di proprietari consenzienti e (forse) intimiditi. Committenti dello scempio, altro che colpa del confino!, imprenditori lombardi, in gran parte bergamaschi. L’altra sera a Telelombardia il sindaco di Buccinasco ha ammesso candidamente di avere ricevuto nel suo ufficio il boss di una nota famiglia calabrese in carcere da luglio. E alle obiezioni del sottoscritto hanno fatto da contrappunto le telefonate di protesta in trasmissione delle sorelle del boss medesimo. In silenzio Milano e il suo hinterland stanno costruendo una propria nuova “normalità”.

La gravità c’è tutta, dunque. E non sarebbe nemmeno una commissione inutile. Vi è infatti il precedente della commissione presieduta da Carlo Smuraglia. Che venne istituita agli inizi degli anni novanta proprio in seguito alle prime polemiche. Essa includeva oltre a consiglieri comunali anche esperti esterni (utilissimi per evitare logiche di “scambio politico”). Benché non avesse poteri speciali, con la sola audizione dei testimoni, quella commissione consentì di capire e intuire quel che ancora l’attività giudiziaria non aveva stabilito con certezza processuale. La stessa, successiva commissione d’inchiesta sulla corruzione nel commercio, presieduta da chi scrive, pur avendo ambiti e compiti di osservazione specifici e differenti, aprì squarci inaspettati e talora eclatanti sulla presenza mafiosa.

Il problema allora mi sembra un altro. Ed è il timore non dichiarato di Milano di farsi mettere addosso la lente d’ingrandimento. Non solo per non mandare in frantumi l’ideologia della pura razza padana; per non rovinare la fiaba della Lombardia inquinata dai mafiosi meridionali estranei al tessuto locale e spuntati come funghi grazie al confino deciso dallo Stato centralista che “ci ha mandato qui i mafiosi”. Ma perché la presenza della mafia a Milano ha sempre toccato nervi delicati del potere. Occorre forse ricordare Michele Sindona e le sue banche al servizio della mafia e l’omicidio, a Milano, dell’eroe borghese Giorgio Ambrosoli che difendeva i piccoli risparmiatori truffati dal “salvatore della lira”? Occorre ricordare Roberto Calvi e il Banco Ambrosiano e di nuovo il riciclaggio del denaro della droga?

È lunga la serie delle prove e dei sintomi delle relazioni pericolose, pericolosissime. Le denunce del giudice Franco Di Maggio sulla mafia che a Milano investe nelle cliniche. Il leoncino regalato dal boss Epaminonda (su cui il giudice Di Maggio indagò) a Bettino Craxi. I viaggi milanesi degli uomini della Cupola alla ricerca di nuovi settori, quelli delle nascenti televisioni private, in cui investire. La facilità con cui l’emissario dei corleonesi riusciva a mettersi in contatto (gli bastava un solo intermediario) con qualche assessore agli inizi degli anni Novanta. E il boss assassino Vittorio Mangano insediato nella villa di colui che avrebbe guidato più governi della Repubblica. E Marcello Dell’Utri eletto trionfalmente nel centro di Milano mentre accumulava un curriculum giudiziario che lo avrebbe portato a una condanna in primo grado per i suoi rapporti con Cosa nostra.

La città preferisce non vedere. Sembra posseduta dal timore di non sapere esattamente che cosa si potrebbe trovare nelle sue viscere se ci si incominciasse a guardare senza aspettare la magistratura. Quasi che la maggioranza politica, anche nelle sue componenti mai colluse o sospettate, temesse per sesto senso di doversi trovare a maneggiare materia infiammabile senza sapere bene come dominarla. Fu d’altronde per questa ragione, credo, se ai tempi del governo più lombardo della storia d’Italia, dal 2001 al 2006, la commissione parlamentare che pure andò in Veneto e Piemonte ed Emilia evitò di andare a Milano, dove tutte le tracce inducevano ad andare.

Eppure un consiglio comunale ha un dovere verso i cittadini, verso tutti i cittadini. Difenderli. Difenderne il tenore della vita civile ed economica, la qualità della convivenza sociale. Senza strumentalizzazioni, certo. Ma anche senza voltarsi dall’altra parte. Si viene eletti anche per questo. L’Expo con i suoi soldi si avvicina. Letizia Moratti si è detta non contraria alla commissione. Altri nel centrodestra non lo sono. Perché non mettere al primo posto l’interesse della città?

Nando Dalla Chiesa

 

e Unità, 3 ottobre 2008

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