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Ass. Georgofili a Calabresi: 'L'articolo di Roberto Speranza ci fa infuriare' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Giovanna Maggiani Chelli   
Giovedì 13 Giugno 2013 18:54
Gentile Direttore Dr. Calabresi,
Direttore de La Stampa,

Un articolo che ci fa infuriare quello apparso oggi sul giornale la Lei diretto.
Di quale paese civile sta parlando il rappresentante del PD Speranza?
Un Paese nel quale noi dovremmo desiderare di vivere? Un Paese senza ergastolo a Riina?
C’è chi desidera di vivere in un Paese ancora migliore e più bengodi ancora, e quindi eccome la mafia libera va bene, molto bene.....
Ma non siamo noi.
Noi vogliamo un Paese migliore senza mafia, quella mafia che ci ha ammazzato i figli per abolire il 41 bis e anche l’ergastolo, sì, anche l’ergastolo stava nel “papello” di Riina.
L’unico mezzo per avere un Paese senza mafia non è mandando a casa i Graviano che si ottiene, ma con il fine pena mai, così parlano e ci liberano dai collusi.
Quel fine pena mai che fa inorridire le anime nobili come il PD Speranza, i quali però non hanno mosso un dito in questi 20 anni per capire cosa è successo all’Italia quando i nostri figli sono morti.
Senza i collusi sì che il Paese sarà migliore e le vittime della mafia portate in un palmo di mano con le loro note spese saldate.
L’ergastolo, il fine pena mai, è congegnale alla mafia Corleonese stragista e chi ne chiede la revoca è in malafede.
La filosofia del volare più alto dei delitti del 1993, ottenuti con più di 1000 chili di tritolo, che hanno martoriato i corpi dei nostri invalidi, la filosofia del volare oltre il 41 bis, oltre l’ergastolo per strage terroristica ed eversiva, è una filosofia di opportunistica pacificazione degna di una bandiera che noi temiamo si sia sporcata con il sangue dei nostri morti e dei nostri figli invalidi, lo dica per noi all’On.Le Speranza.
Cordiali saluti

Giovanna Maggiani Chelli
(13 giugno 2013)
Presidente
Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili




Giustizia: cancellare l’ergastolo non è un tabù

 

Parlare di carcere e di pene significa parlare della società in cui viviamo e ancora di più di quella in cui vorremmo vivere. Mi hanno colpito le testimonianze riportate su queste pagine, nell’inchiesta di Michele Brambilla. L’ergastolo “ostativo”, il “fine pena: mai”, l’impossibilità per chi subisce questa condanna di coltivare la speranza, vale a dire il sentimento che forse più di ogni altro permette all’umanità e ai suoi singoli componenti di andare avanti, di proseguire il cammino. Sono andato con la mente alla nostra Costituzione, lì dove dice che le pene devono essere tese alla rieducazione del condannato. Ho pensato ai protagonisti di quel bellissimo film dei fratelli Taviani, “Cesare deve morire”, e al fatto che la giustizia non può mai, in nessun caso, scivolare nella vendetta. Ho ritrovato alcune parole di Aldo Moro, che un paio d’anni prima di essere sottratto alla vita e alla politica dai suoi carnefici spiegava ai suoi studenti che la pena dell’ergastolo “priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Sì, credo davvero sia giunto il tempo di affrontare con serenità e saggezza una questione che non ha colore politico, perché riguarda il grado di civiltà che il nostro Paese vuole raggiungere.
 

di Roberto Speranza (Presidente deputati Pd)

La Stampa, 13 giugno 2013

 














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