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Editoriali - Editoriali
Scritto da Marco Travaglio   
Venerdì 28 Febbraio 2014 16:21
di Marco Travaglio - 28 febbraio 2014

È ora di finirla di “costruire carriere immeritate” processando la trattativa Stato-mafia, che è solo un’“allucinazione” senza “una sola prova seria” e “si concluderà con il totale flop dell’inchiesta di Antonio Ingroia & soci”. Parola di Pino Arlacchi, sociologo ed europarlamentare eletto con l’Idv poi passato al Pd. In un’intervista a Panorama, colui che viene definito “tra i massimi esperti internazionali di criminalità organizzata” propone di “rottamare una certa idea della mafia”, ma anche chi “ha voluto costruirsi una carriera”. E non parla di se stesso, ma dei pm che indagano sulla trattativa,“ammalati di protagonismo e venditori di paura”.
Tipo Nino Di Matteo, che pur di fare carriera s’è addirittura fatto condannare a morte da Totò Riina. Ma questa condanna a morte non vale, perché ormai “Riina è un capomafia di 84 anni, in galera da 21, solo e abbandonato” e “la credibilità delle sue farneticazioni è zero”.
Nulla a che vedere con il Riina che, dalla gabbia di un processo nel '94, attaccò Caselli, Violante e Arlacchi: allora la sua credibilità era mille, tant’è che da quel momento – ricorda Panorama – Arlacchi “ha vissuto per 13 anni sotto scorta”.
Strano, perché a sentire Arlacchi “la Cosa Nostra di Riina è stata fatta a pezzi dal maxiprocesso del 1987”, ergo non si comprende come abbia potuto mettere a ferro e a fuoco lo Stato fra il 1992 e il '94, ma soprattutto come Riina potesse minacciare sul serio Arlacchi nel 1994, al punto da costringerlo – obtorto collo, si capisce – a vivere scortato.

Dopo la cura.
In ogni caso Arlacchi ha il pregio delle idee chiare: la trattativa è un’“allucinazione” perché “basata su un’ipotesi grottesca”: quella di una connection fra Stato e Cosa Nostra ai tempi delle stragi del 1992-'94 “attraverso il Ros e i servizi segreti che negoziano un armistizio”.
Una panzana sfornita di qualunque “prova seria a sostegno”, a parte “le vanterie di un killer, Gaspare Spatuzza” (così inaffidabile da aver smontato una sentenza definitiva su via D’Amelio) e “le bufale di un calunniatore patentato come Massimo Ciancimino” (che però, purtroppo, conservava una cinquantina di documenti del padre, “papello” compreso, poi autenticati dalla Scientifica). Ci sarebbero pure le deposizioni dei vertici del Ros, dall’ex colonnello Mario Mori all’ex capitano Giuseppe De Donno, che parlano esplicitamente di “trattativa” con Vito Ciancimino, trait d’union verso Riina, ma lasciamo andare. Arlacchi non può tollerare “il fango gettato su persone perbene come Mancino e Conso, accusati senza il più piccolo indizio o prova di aver tradito il loro mandato” (in realtà sono imputati di falsa testimonianza), mentre furono “coraggiosi e inflessibili contro Cosa Nostra” (il secondo revocò il 41-bis a 334 mafiosi detenuti e il primo non mosse un dito, ma fa niente). Discorso chiuso, non ne parliamo più.
Però c’è un però: un verbale di otto pagine fitte fitte, firmato poco più di quattro anni fa da tale Arlacchi Giuseppe detto Pino, sentito l’11 settembre 2009 come testimone dai pm di Caltanissetta Amedeo Bertone, Domenico Gozzo, Nicolò Marino e Stefano Luciani, nell’inchiesta Borsellino-quater. Lì l’Arlacchi mostra non solo di credere all’allucinazione della trattativa, anzi delle trattative (“addirittura tre o quattro”) fra Stato e mafia, ma anche di saperla lunga, molto lunga in materia, nella sua veste di “consulente dell’Alto commissariato antimafia” dal 1990 al '94 “in rapporti diretti con il ministero dell’Interno per redigere il progetto della Dia”.

Prima della cura.
Arlacchi racconta del famoso incontro del 1° luglio 1992 fra Paolo Borsellino e il neoministro dell’Interno Mancino: “Borsellino venne a trovarmi... nel tardo pomeriggio e mi disse di essere stato in precedenza a trovare l’on. Mancino con il quale aveva avuto un breve colloquio”, a cui “aveva presenziato il prefetto Parisi (Vincenzo, capo della Polizia, ndr)”.
Ora, Mancino ha sempre negato di aver parlato quel giorno con Borsellino, ammettendo al massimo una fugace “stretta di mano” e “senza riconoscerlo”. Domandano i pm: è vero quel che dice l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, e cioè che nel passaggio dal governo Andreotti al governo Amato il ministro dell’Interno Scotti e lo stesso Martelli – autori del durissimo decreto antimafia sul 41-bis dopo Capaci – dovevano saltare (come avvenne con Scotti, sostituito con Mancino) per “allentare la morsa” antimafia in nome di un “tacito accordo col nemico”?
Arlacchi conferma: “Quel che ha dichiarato Martelli corrisponde al clima politico del tempo... Discussi della situazione di ‘opacità’ con Scotti, il quale soleva ripetere che ‘gliel’avrebbero fatta pagare cara’”.

Tre o quattro trattative.
I pm leggono ad Arlacchi una sua intervista a La Stampa, in cui rivela: “Trattative fra Stato e mafia ce ne sono sempre state. In quegli anni cruciali ce n’erano in piedi più d’una, addirittura tre o quattro, intrattenute da centri marginali dello Stato... Marginali non vuol dire ininfluenti: era gente che stava nei servizi, nei Ros e negli apparati investigativi d’eccellenza”. Ma guarda un po’: anche dal Ros. Proprio come affermano i pm carrieristi della Trattativa. “Perché trattavano?”, si domanda Arlacchi. E si risponde: “Un po’ per cercare pentiti, molto per arginare i successi della Polizia”, guidata da Parisi e Gianni De Gennaro.
Ma tu pensa: Ros, servizi e apparati volevano arginare i successi della Polizia contro la mafia.
E non è un’allucinazione dei pm acchiappanuvole: è una convinzione di Arlacchi. Tant’è che – spiega il luminare ai pm - “sul luogo della strage di via D’Amelio, almeno così credo, venne trovato un biglietto con un numero di telefono di un dirigente del Sisde” (verissimo, era di Lorenzo Narracci, fedelissimo
del numero 3 del Sisde Bruno Contrada, ma era a Capaci, non in via D’Amelio). La cosa non meravigliò affatto Arlacchi: “Era mia convinzione che Cosa Nostra, nell’eseguire le stragi di Capaci e via D’Amelio, avesse agito in sinergia con ambienti deviati delle istituzioni, soprattutto del Sisde” che avevano “cavalcato la reazione autonoma di Cosa Nostra, pilotandola per asservirla allo scopo di riacquistare la centralità che avevano avuto nel passato” dopo “la perdita di potere della parte politica che li aveva sempre garantiti”. Una tesi “condivisa anche dai dottori Falcone e Borsellino”. Perbacco.

Mori&Contrada.
“Faccio riferimento – spiega Arlacchi – soprattutto al gruppo Sisde che aveva come punto di riferimento Contrada e anche qualche gruppo appartenente all’Arma dei Carabinieri, che aveva nel col. Mori il punto di riferimento.
Mori e Contrada mi risulta che fossero ambedue in forte contrapposizione con il dottor De Gennaro”. E non basta: “Io non condividevo il metodo col quale operava il col. Mori in quel periodo, contrassegnato da un ricorso a confidenti e da un’azione che definirei poco trasparente”. Ma c’era pure qualcuno peggio di Mori: “Ritenevamo Contrada davvero pericoloso e capace anche di compiere omicidi”. Quindi c’erano trattative, gestite per lo Stato da Mori e i Contrada, l’uno “poco trasparente” e l’altro un potenziale ”assassino”. Mica male, come allucinazione.

Andreotti capomafia.
Già “nel 1985 – rivela Arlacchi – il dottor Falcone mi chiese se sapessi chi fosse ‘il vero capo della mafia’, facendomi il nome del presidente Andreotti e precisandomi che l’aveva saputo da Tommaso Buscetta”: anche lui “era in possesso di elementi certi”, ma “non avrebbe proceduto in questa direzione finché i tempi non fossero maturi”. Dopodiché “un ex agente Cia a Roma tra il 1978 e il 1982, Phil Girardi, mi disse che loro spiavano tutti gli uomini politici italiani, compreso Andreotti, e sapevano, per via delle microspie che avevano installato in quel periodo, dei rapporti fra Andreotti e i capi mafia. Girardi mi ha detto di essere disponibile a confermare ufficialmente quanto mi ha riferito”.
Nel 1989, poi, ci fu il fallito attentato all’Addaura, anch’esso in “collegamento con il gruppo andreottiano”: “Falcone mi disse scherzando che era stato contattato per primo dal presidente Andreotti e, cambiando espressione e diventando serio, mi disse pure che gli era corso un brivido lungo la schiena”.

Le stragi per trattare.
E la trattativa del 1992-‘93? “Dopo le stragi del 1993 si consolidò presso i vertici della Dia l’idea che le stragi avevano una valenza politica precisa, cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti e instaurare una trattativa”.
Quindi la mafia fa le stragi per trattare con lo Stato e lo Stato tratta con la mafia. Attraverso chi? “Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite il gruppo Contrada, fosse uno dei terminali della trattativa... Quando faccio riferimento per le trattative allora in corso al Ros intendo riferirmi al col. Mori; sospettavamo infatti che vi fosse in atto un'azione di depotenziamento delle indagini della Procura di Palermo, anche tramite contatti con appartenenti a Cosa Nostra che convincevano l’associazione della possibilità di uscire in qualche modo indenne dalla fase delle indagini compiute dal pool di Palermo. Parisi era certamente a conoscenza di questa situazione, ma il suo atteggiamento è sempre stato quello di cercare una mediazione con questi ambienti, intendo riferirmi al gruppo Contrada, perché era a conoscenza di quanto potessero essere pericolosi e cercava pertanto di contenerne l’azione”.
Ma quante cose sa questo Arlacchi.
Tutte collimanti con le allucinazioni dei pm di Palermo.

C’è pure Dell’Utri.

All’appello degli imputati eccellenti per la Trattativa manca soltanto Marcello Dell’Utri. Anzi no, nel verbale nisseno di Arlacchi c’è anche lui: “In tale contesto, ricordo che il dott. De Gennaro già all’epoca mi parlava di contatti ‘ambigui’ tra appartenenti a Cosa Nostra e Marcello Dell’Utri, che fungeva da anello di congiunzione tra la mafia e il mondo dell’economia e della politica”. Infatti stava creando Forza Italia, che sarebbe uscita allo scoperto a fine '93. Proprio come raccontano diversi pentiti nel processo Trattativa, ma anche quel peracottaro calunniatore di Massimo Ciancimino sulla scorta dei colloqui col padre Vito. E così l’Arlacchi prima della cura diventa il miglior alleato dei pm visionari da rottamare.

Gli scheletri al Ministero.
“Le stragi del ’93 – conclude Arlacchi – furono il proseguimento coerente del disegno. E proprio le cosiddette trattative, i contatti anomali aprirono la strada all’eversione mafiosa, ancora una volta protetta da false analisi e depistaggi come quello – sostenuto da Sismi e Sisde– che, nell’immediatezza degli attentati di Roma, Firenze e Milano, invitavano a indagare sulla criminalità colombiana, balcanica o sul terrorismo internazionale. Solo la Dia indicò la pista inconfondibile del terrorismo mafioso”.
Lo stesso “Scotti fu oggetto di ripetuti depistaggi e attacchi da parte dei servizi, ne era convinto anche Parisi, con cui parlai del fatto”. La miglior prova che si voleva eliminarlo dal Viminale: la sua linea dura era incompatibile con la trattativa, di cui infatti fu tenuto all’oscuro.
Ma di quell’immondo negoziato “ci dev’essere certamente traccia negli archivi del ministero dell’Interno, delle forze dell’ordine e dei corpi a cui appartenevano i protagonisti di queste trattative. Probabilmente la terminologia non sarà proprio questa, non si parlerà di trattativa ma di contatti, ma una traccia deve esservi. Anche perché queste attività comportano spesso l’uso di fondi riservati. Ciò significa che, dunque, il ministro dell’Interno avrebbe dovuto sapere di queste ‘trattative’, pur se diversamente chiamate. È possibile che sia anche il ministro della Difesa a conoscere i fatti”. E chi era il ministrodell’Interno, dopo Scotti? Nicola Mancino.  Ci sono tutti i presupposti perché Arlacchi diventi  il testimone-chiave della pubblica accusa nel processo sulla Trattativa. Sempreché, negli ultimi quattro anni, non abbia perduto la memoria. Non sarebbe il primo, né l’ultimo.


Fonte: il Fatto Quotidiano








 

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