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Lo show del boss contro il giornalista e il giudice vieta le tv PDF Stampa E-mail
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Scritto da Attilio Bolzoni   
Domenica 01 Giugno 2014 11:14
di Attilio Bolzoni - 1 giugno 2014

BOLOGNA
. Perché un imputato di mafia può intimidire quando e come vuole e nessuno può vedere la sua faccia e il suo ghigno? Perché Nicola Femia (nella foto, ndr) detto “Rocco” si scatena contro il giornalista Giovanni Tizian ed è vietato filmarlo mentre insulta e minaccia? Perché la ‘ndrangheta non esiste. Di sicuro, non esiste fra Bologna e la Romagna per le sentenze dei giudici.

Quella che vi stiamo per riferire è una di quelle vicende mafiose che una parte d’Italia ancora non riesce o non vuole comprendere sino in fondo perché - come dicono gli avvocati difensori di coloro i quali sono alla sbarra per il famigerato 416 bis - «qui la mafia non c’è e la prova è che non si mangia mai la ‘nduja ma lo squacquerone». Fra un luogo comune e l’altro al Tribunale di Bologna si sta celebrando un processo contro un’«associazione» il cui capo o presunto tale non c’è udienza che nel suo stile - molto calabrese - non pronunci il nome del giornalista che qualche anno fa gli ha dedicato un’inchiesta molto accurata ricevendo in cambio da un suo compare questa frase intercettata a un telefono: «O la smette o gli sparo in bocca».

Peccato che lo show di “Rocco” non si possa documentare con immagini perché l’illustrissimo presidente del Tribunale di Bologna Francesco Scutellari, d’accordo con il presidente della sezione dove si celebra il processo Michele Leoni, abbia «non autorizzato » le riprese televisive - schivando con acrobazie lessicali l’autentica interpretazione delle norme attuative dell’articolo 147 del codice di procedura penale - e deciso di non far filmare l’udienza. Con questa motivazione: «La mera presenza materiale delle attrezzature e degli operatori arreca disturbo alle attività processuali». E con quest’altra: «Le riprese e le trasmissioni possono provocare disagi e risvolti psicologici su tutti i soggetti che partecipano al dibattimento». Alla faccia del diritto di cronaca le minacce di “Rocco” non le deve vedere nessuno. La vittima può solo fare la vittima avvolto in un silenzio di tomba.

E in questo caso la vittima è Giovanni Tizian, papà ucciso giù a Locri la notte del 23 ottobre dell’89 perché non era piegato ai ricatti dei boss, la famiglia che si trasferisce in Emilia e vent’anni dopo lui – Giovanni – che è costretto a vivere sotto scorta per avere scritto sulla Gazzetta di Modena – prima di arrivare all’Espresso – articoli sul re delle slot machine Nicola Femia e la sua ciurma. Tutti arrestati. È cominciato il processo e sono cominciati subito gli avvertimenti, dichiarazione spontanea dopo dichiarazione spontanea, mai qualcuno che lo fermasse in tempo e con il reporter che è rimasto - al di là di ogni giustificazione degli azzeccagarbugli - il bersaglio preferito delle invettive dell’imputato, libero di straparlare contro chi ha avuto solo la «colpa » di raccontare la verità. È andata così nella penultima udienza: «Ho avuto la custodia in carcere per un giornalista, non c’è una denuncia, non c’è un capo di imputazione, chi sbaglia deve pagare. Sbaglia Femia? Deve pagare Femia. Sbaglia il giornalista? Deve pagare il giornalista». L’esibizione l’ha ripetuta ieri pronunciando altre quattro volte in venti minuti il nome di Giovanni Tizian, anzi del «signor Tizian». Poi se l’è presa anche con le perquisizioni del Finanza durante le quali – a detta sua – sarebbe scomparso del denaro. Se l’è presa con il pm e pure con il giudice delle indagini preliminari. Ma il suo obiettivo preferito, ancora, è rimasto il reporter dell’Espresso che è diventato un’ossessione per “Rocco”.

Per la verità ieri c’è stata un’udienza molto speciale. Per lui, soprattutto. In prima fila accanto all’avvocato Enzo Rando che difende Tizian (parte civile in questo processo) il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, una mezza dozzina di inviati di quotidiani nazionali e di settimanali, volti noti della tivù, ragazzi di Libera, qualche investigatore molto interessato, i parenti dell’imputato e un povero ragazzo pachistano che stava ritrattando la sua testimonianza su un pestaggio per paura. “Rocco”, originario di Gioiosa Ionica, era agitatissimo: non poteva più sfogare la sua rabbia in solitudine.


Attilio Bolzoni (La Repubblica, 1 giugno 2014)








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