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'Mafia, il Veneto fa come lo struzzo' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Marco Milioni   
Mercoledì 08 Aprile 2015 21:38
di Marco Milioni - 8 aprile 2015

«Rosi Bindi non agisce come esponente del Pd ma come presidente della Commissione antimafia che fa bene ad indagare… Ma a due mesi delle elezioni… non mi sento di strumentalizzare questa vicenda». Le dichiarazioni della candidata Pd, Alessandra Moretti, alla carica di governatore regionale ben rappresentano il mood della politica veneta che, dopo la trasferta dell’Antimafia in terra scaligera e lo scoppio del caso Verona, cerca di  abbassare i toni sull’infiltrazione mafiosa in Veneto.

Ma questo atteggiamento non è condiviso da chi da tempo analizza il fenomeno ed è abituato a leggerlo in controluce. Come lo scrittore Massimo Carlotto sul Venerdì di Repubblica del 27 marzo, dove spiega che «il Nordest è diventato una landa desolata di capannoni vuoti e di terre inquinate… nonostante vent’anni di servizio di nettezza urbana svolto dalla camorra». Su posizioni simili è Enzo Guidotto, presidente dell’Osservatorio veneto sulla mafia. Ex consulente dell’antimafia, con un passato da professore di scuola superiore e di preside, e un presente da scrittore e analista del mondo criminale, Guidotto sottolinea che «la situazione è grave» e che i media «in un modo o nell’altro» finiscono per sminuire il problema.

Professor Guidotto, perché i media veneti tenderebbero a sminuire il problema?
Perché spesso, ovviamente non tutti, danno ad intendere ogni volta che emergono notizie come quella di Verona o di altri fatti di mafia, che episodi così siano fulmini a ciel sereno.

Si tratta di una incapacità da parte dei giornalisti o c’è di più?

Le opzioni sono tre. O non conoscono certi argomenti. Oppure li conoscono ma non hanno voglia di scrivere certe cose. Oppure certe cose qualcuno non gliele fa scrivere. Ad ogni modo così si finisce per dimenticare la questione di fondo.

Quale?
La penetrazione mafiosa nel Veneto è ormai stabilmente strutturata e questo è un dato storico.

Vale a dire?
Tanto per dirne una la cosiddetta colonizzazione della ‘ndrangheta a Verona risale quanto meno agli ’70-80 quando fu veicolata anche da settori dell’allora Psdi. E poi possiamo fare l’esempio degli ultimi sviluppi della indagine Aemilia che hanno interessato il Vicentino e il Veronese. E ancora vogliamo citare l’affaire Tronchetto a Venezia? E tornando indietro agli anni ’80-90 basti ricordare le minacce ricevute, per opera di due camorristi, in sede di conferenza dei servizi dall’allora sindaco di Rosà Lorenzo Signori. Minacce proferite con una pistola davanti a due carabinieri in divisa. Oppure basterà rammentare la vicenda della discarica Gie a Cassola, o l’affaire Cassiopea. Per non parlare della mafia del Brenta che qualche anima candida continua a chiamare mala. E potrei andare avanti due ore, magari citando le indagini che hanno interessato l’ex amministratore delegato del Vicenza Calcio, Danilo Preto, accusato dalla magistratura siciliana di avere custodito diversi beni del clan Lo Piccolo. E poi c’è il clamore dell’affaire scoppiato in mano a Flavio Tosi.

Anche la politica veneta quindi ha un ruolo in questa partita?
Certo che ce l’ha. Quando sui giornali si parla della cosiddetta trattativa Stato-mafia si racconta un pezzo reale, ma parziale della realtà.

Perché?
Perché la trattativa Stato-mafia altro non è che un sottoinsieme della compenetrazione che una parte importante del potere politico ha con gli ambienti mafiosi. È una storia che comincia con l’unità d’Italia quando un prete veneto nei primi anni Sessanta dell’Ottocento denuncia il «camorrismo», il vecchio nome della mafia, con cui vengono gestiti gli appalti pubblici in Sicilia.

Ma le mafie, ovvero quella calabrese, campana e siciliana, giungono nel Veneto così presto?
No, il Veneto viene interessato a questi fenomeni quando le mafie mutano definitivamente pelle in senso organicamente economico. E strutturano la loro influenza sul piano finanziario sfruttando anche le loro propaggini internazionali, nonché vecchi e nuovi referenti in loco. C’è una parte del boom veneto che si deve a questi capitali. E ora che c’è la crisi le opportunità di penetrazione unite a quelle di ridisegnare il territorio tenendo conto di questo potere occulto in qualche modo si moltiplicano. Di conseguenza quello della sicurezza diventa un problema, ma solo, mi si consenta la metafora, a targhe alterne.

Si riferisce, per esempio, alla mobilitazione, anche mediatica, nata dal caso Stacchio, molto più massiccia, rispetto a quella generata dall’incendio di una villetta acquistata da un operaio veronese che era stata sottratta a soggetti in odore di ‘ndrangheta?
È il Veneto forte coi deboli e debole coi forti. A questo aggiungo che la sottovalutazione del fenomeno deriva anche da una cultura media e da una voglia di informarsi da parte della popolazione che lascia a desiderare. Probabilmente questo è il frutto, almeno in parte, dell’azione dell’establishment durante la dominazione austroungarica. Azione messa in pratica con l’aiuto della Chiesa, tesa a fare in modo che la popolazione non mettesse mai in discussione il potere costituito. E le parla un credente per decenni iscritto alla Dc, pur su posizioni assai critiche. Ad ogni modo questo humus, unito alla laboriosità dei veneti, che di per sé non è un disvalore, ha creato le condizioni per cui i veneti stessi, a fronte della possibilità di una occupazione più o meno stabile, evitassero, magari inconsciamente di porsi certe domande. Ma tutto ciò però crea una debolezza pericolosa. Perché la penetrazione di cui si parlava prima rischia di sottrarre a tanti piccoli imprenditori, il nerbo economico della regione, una larga parte dei mezzi di produzione. Lasciando a questi ultimi alla fin fine solo la possibilità di prestare la propria manodopera, fingendo più o meno di essere titolari dell’impresa.

Come si concretizza la penetrazione mafiosa sul territorio veneto?
Lei pensi ad un piccolo Comune in cui una impresa che dà lavoro a un certo numero di operai si sorregge grazie al sostegno di capitale mafioso. Le maestranze staranno in silenzio per paura di perdere il posto. Gli imprenditori, la proprietà formale faranno altrettanto. I sindacati chiuderanno un occhio per scongiurare la disoccupazione. I politici locali ne chiuderanno due per evitare che le loro amministrazioni debbano affrontare le conseguenze sociali della disoccupazione, la quale potrebbe erodere il loro consenso. I dirigenti di banca ne chiuderanno tre sapendo che i prestiti erogati in partenza sono al riparo da problemi. Così la mafia finisce per essere percepita, pur in un’ ottica parziale, perversa e superficiale, quale fattore di sicurezza. Mentre il rapinatore colpito da Stacchio finisce per fare il paravento di queste paure. Il tutto mentre lor signori, parlando dei nomadi rapinatori, dimenticano sempre di dire che una parte di questa comunità è stata storicamente utilizzata come manovalanza dalla mafia del Brenta.

Dalla Commissione antimafia giungono critiche alla prefettura veronese e alla magistratura veronese; la quale a sua volta se la prende con la procura antimafia veneziana. Lei come commenta?
Si tratta di una situazione grave per cui occorrerà fare chiarezza. Subito però. Qualche errore grave, sempre che di errore si tratti, qualcuno l’ha commesso negli anni. Altrimenti non ci troveremmo dove siamo.

Lei pensa che ci siano inerzie anche tra le forze dell’ordine a livello locale?
Questa è una domanda da un milione di dollari. Dico solo che se inerzie del genere venissero appurate, saremmo di fronte ad un fatto di gravità inaudita. Ad ogni modo al Viminale, al Ministero della Giustizia e al Csm hanno gli strumenti per scoprire eventuali storture. In un batter d’occhio se si vuole.


Marco Milioni (www.vvox.it)











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